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Sandro Veronesi: «Spendo un sacco di soldi in psicanalisi. Conflitti con mio padre, gli facevo girare i c... ma non ci siamo mai allontanati»

3 settimane fa 4
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Seminario sull’estasi: «Squillò il telefono di casa, risposi, ascoltai: “Il tuo libro ci piace, lo pubblichiamo tra qualche mese”. Felice e scosso dissi a mia madre “vado a fare una girata” e poi, a bordo dello spompatissimo maggiolino che possedevo all’epoca, imboccai a 100 all’ora l’autostrada del sole». Per un’ora e mezza, guidando senza meta tra Prato e Barberino «cantando a squarciagola A real wild child di Iggy Pop» Sandro Veronesi fu attraversato da «una gioia purissima che fino ad allora non avevo provato né con l’amore, né con la famiglia, né con la Juventus». Una felicità assoluta «che pur non avendo avuto un’esistenza sventurata ed essendo stato felice tante volte, in quella forma non ho ritrovato mai più neanche con la letteratura». A quasi quattro decenni di distanza da quel giorno, dopo aver vinto per due volte il premio Strega, Veronesi sa che il successo può ubriacare e che l’unico trucco per ottenerlo è non cercarlo: «Sul successo amo due definizioni. Pensavo fossero dei talismani, ma in realtà rappresentano un vero e proprio antidoto per non cadere in una buca». 

Quali definizioni? 
«La prima è di Grazia Cherchi. “Il successo è un participio”». 

La seconda? 
«È di Pasolini. Dice che il successo è l’altra faccia della medaglia della persecuzione e si rivela con gli stessi identici meccanismi. Sono sempre rimasto indifferente alla percezione che gli altri hanno di me e scrivendo non è stato poi così difficile. Non sono un’attrice che vede la sua bellezza sfiorire e si domanda che cosa le accadrà quando non le offriranno più un ruolo, né un campione di basket da 30 milioni di dollari a stagione che all’improvviso va in crisi perché non riesce più a mettere la palla dentro il canestro». 

Chi è Sandro Veronesi? 
«Ho rinunciato a comprendere le cose che mi riguardano. Per provare a capirle sto spendendo un sacco di soldi in psicanalisi, ma verità è che ancora non lo so». 

È un male? 
«Non credo. Penso anzi sia la ragione per cui sono ancora così emozionato a scrivere. È battendo sui tasti che vengono fuori le cose importanti e quando accade non ho il tempo e neanche la voglia di chiedermi anche il perché». 

Nel suo ultimo libro, “Settembre nero”, proprio come nella sua opera prima “Per dove parte questo treno allegro” brilla il conflitto tra padre e figli. Che ruolo occupava il conflitto nella sua infanzia? 
«Ho capito in fretta che per crescere e conquistarsi le cose il conflitto è fondamentale, ma ho compreso altrettanto rapidamente quanto il conflitto permanente possa essere mortale. È necessario gestirlo, sapersi fermare al momento giusto, dimenticare». 

Suo fratello Giovanni sostiene che la sua famiglia fosse retta e giusta con qualche picco di iniquità: “Sapevo che Sandro aveva spesso ragione, ma non mi dispiaceva che il babbo non gliela desse vinta”. 
«È vero che io e mio padre abbiamo avuto dei conflitti, ma è anche vero che la dinamica era gestita con saggezza ed equilibrio e il conflitto faceva parte in un certo senso dell’educazione. Non eravamo d’accordo su tante cose. Gli facevo girare i coglioni e lui li faceva girare a me, ma non ci siamo mai allontanati. L’atteggiamento di Giovanni era diverso, ma è ovvio che il fratello minore non possa comportarsi come il fratello maggiore: deve fare il contrario, sempre. Sentivo l’affetto profondo di Giovanni e forse, se fosse intervenuto tra me e mio padre, sarei stato anche geloso. Mio fratello era un capo naturale, io no. Avevo bisogno di strutturarmi, di affilare le unghie, di diventare adulto per conto mio». 

Per scrivere c’è bisogno di sofferenza? 
«Carmelo Bene dice che quando si soffre il dilettante si mette a scrivere e il professionista smette». 

Lei? 
«Quando sono stato male per ragioni fisiche o morali ho cercato di curarmi senza utilizzare la scrittura». 

Perché? 
«Perché avrei rischiato di versare il sangue addosso al lettore. Magari ci sono lettori a cui quel sangue non dispiace, ma io preferisco fermarmi, elaborare, prendermi il tempo di guarire. La scrittura mi è costata troppi sogni e troppo tempo per versarci dentro il mio dolore. Se scrivo di quel dolore tradisco il potenziale della poesia e della letteratura. Il dolore è di tutti, come gli accendini». 

Citiamo da “Settembre nero”: «Il mondo brucia, è fuoco vivo». «Ed è assurdo pensare che sia possibile non soffrire. Fa parte del contratto che firmi quando vieni al mondo. Non l’hai chiesto, è vero. Però sei qui e soffrire, si soffre». Rimedi? 
«Bisogna allenarsi a sopportare l’idea del dolore, non il dolore». 

Lei come si è allenato? 
«Leggendo. Studiavo architettura a Firenze e prendevo il treno da Prato tutte le mattine alle 7. Tra una cosa e l’altra, leggevo un’ora all’andata e una al ritorno, ma se non tornavo a pranzo a casa, quelle ore si dilatavano trasformandosi in interi pomeriggi di lettura». 

Scriveva già? 
«Sì, delle boiate. Diventare uno scrittore rappresentava un sogno irrealizzabile, simile a quello che mi faceva addormentare con il desiderio di vedere Gigi Riva con la maglia della Juve. Al risveglio, nella realtà, di quell’aspirazione non c’era più traccia». 

Perché voleva diventare uno scrittore? 
«Per far provare ai lettori le stesse emozioni che provavo leggendo. A volte mi mettevo a scrivere cose che mi sembravano belle fino a che non le paragonavo con quelle che avevo letto. Capivo che ero lontano dall’obiettivo. Per creare uno stile che non fosse solo imitazione c’è voluto tempo».

Il suo primo libro, un libro di poesie, venne pubblicato nel 1984. 
«All'epoca i librai facevano anche gli editori: andai da quello al quale compravo i testi scolastici e gli domandai se era disposto a stampare il mio». 

Era disposto? 
«Fissò un prezzo. Pagai circa duecentomila lire e il libro venne stampato. Albinati e Lodoli avevano fatto la stessa cosa a Roma e l’idea di imitarli rendeva il patto meno umiliante. Meno degradante. “La poesia si autopubblica” mi ripetevo “l’hanno fatto tutti, che male c’è?”». 

Come trovò i soldi? 
«In parte li chiesi a mio padre in parte misi i miei. Avevo lavorato occasionalmente per l’Istat: per assolvere al compito, censire tutte le strade del centro storico di Prato numero civico per numero civico, impiegai sei mesi. Fu persino divertente». 

E del libro cosa fece? 
«Capitò nelle mani di Enzo Siciliano. Gli piacque. Mi aiutò ad avere la sua attenzione e a conoscere alcune persone come Marco Lodoli, Valerio Magrelli o Edoardo Albinati. Amici che erano bravi, ma fino a quel momento avevano fatto poco o nulla. Erano più grandi di me: battistrada e al tempo stesso lepri da rincorrere. Si rivelarono fondamentali». 

Siciliano le offrì un lavoro importante. 
«Enzo Siciliano era il direttore di Nuovi Argomenti. E mi chiamò a sostituire Albinati nel ruolo di segretario della rivista, un ruolo che confinava con il volontariato, per assolvere a una funzione delicata: selezionare i manoscritti. In parole povere, la pubblicazione o meno di un possibile talento passava anche attraverso le mie scelte». 

Sentiva la responsabilità? 
«Certo che la sentivo, la sentivo eccome. Me la assunsi e mi fece crescere molto». 

Era un mondo novecentesco? 
«Ogni cosa intorno a me parlava di ‘900 e ogni cosa - ne erano perfettamente consapevoli gli scrittori che incontravo - stava finendo. La mano ossuta di Alberto Moravia che gesticolando con le dita mi spiegava che intellettuali e letteratura nel mondo che sarebbe arrivato avrebbero contato meno di zero, ce l’ho davanti agli occhi. C’era ancora un fervore antico di discussione, di dibattito, di pensiero, ma c’era anche la disperazione di chi aveva capito che questa roba moriva, si dissolveva, finiva. E infatti è finita. La nuova tecnologia non ha tempo per il ‘900». 

E per cosa ha tempo? 
«Per le polemiche via social, per gli insulti, per le offese, per il fango, per le shitstorm». 

Pasolini che alle polemiche prestava corpo e voce non l’ha conosciuto, ma ha dormito sul suo letto. 
«Sul suo lettuccio. Pasolini fantastica, ancora poverissimo, di come sarà la sua casa quando avrà i soldi per arredarla. E la descrive con questo lettuccio semplice in legno e la coperta ricamata dalle sarte calabresi. Quando è morto, quelle cose sono passate a Graziella Chiarcossi, cugina e moglie di un mio benefattore, Vincenzo Cerami. Mi ero laureato e Graziella e Vincenzo mi dissero: “Abbiamo uno studio a Monteverde vecchio, se vuoi è vuoto, puoi stare lì”. In quel museo rimasi per nove mesi. Dormivo pochissimo perché circondato dalle dediche struggenti di Maria Callas, dai manoscritti mandati da Gadda, o dai racconti di Canterbury chiosati a mano. Stare sveglio era una tentazione irresistibile». 

In quell’appartamento avrebbe potuto vivere a lungo. 
«Vincenzo mi disse “potevi restare di più”, ma non avrebbe avuto senso. Era ingiusto. Quello era uno studio in cui Vincenzo lavorava e a casa aveva un figlio piccolo che gli passava tra le gambe mentre scriveva. Insomma, dopo un po’ di tempo, se uno ha una stilla di pudore, ringrazia, porta un mazzo di fiori e leva le tende. Fu un privilegio enorme, ma i privilegi non possono diventare diritti». 

A Roma decise di restare comunque. 
«Sono stato accolto in un mondo di gente vera, di scrittori non ancora affermati che a loro volta frequentavano persone più adulte come Franco Cordelli o Valentino Zeichen». 

Com’era la vita da scrittore prima dell’affermazione? 
«Nessuno mi metteva fretta o pretendeva che io dimostrassi qualcosa con una pubblicazione. Erano dialoghi, pranzi, ore trascorse insieme tra persone libere. Zeichen ad esempio, era meraviglioso. Se non gli andavi a genio lo capivi subito. Ma se gli piacevi ti invitava a mangiare nella sua baracca gli spaghetti al pomodoro parlando con Cordelli della Lazio, della vita, delle ragazze». 

Anche di politica? 
«Valentino essendo un profugo fiumano era virulentemente anticomunista e un po' su quel versante ci scontravamo. Cordelli si divertiva a vederci duellare, ma io, anche nella dialettica aspra, mi sentivo in paradiso. Ero un garzone di Prato che passava le serate con poeti e scrittori che amavo e che incarnavano l’ideale al quale tendevo. Si imparava sempre qualcosa, si diventava adulti, ci si prestava i libri. Enzo Golino, consapevole che un libro prestato è sempre un libro perso, segnava su un cartoncino il nome del beneficiario. Dopo sei mesi, se non aveva notizie del volume, si faceva sentire». 

Con Zeichen e Cordelli parlava anche di calcio. 
«Il calcio per me è una cosa enorme e simbolica. Per molti anni mi sono fatto chiamare Alessandro. Poi mi sono innamorato di un calciatore, Sandro Salvadore, e da allora per tutti sono stato soltanto Sandro. Ricordo perfettamente lo spareggio scudetto vinto dal Bologna sull’Inter di Herrera ascoltato con mio padre dalla radio di una Fiat 1500. Eravamo al mare e si stette lì al parcheggio con le portiere aperte, a sentire questa partita e a farci carezzare dal vento dell’estate. Il calcio raccontato in radio mi faceva sognare perché si poteva vedere: Ciotti e Ameri erano persone che non stavano mai zitte. Nelle loro parole c’era un mondo che si lasciava immaginare». 

Era il giugno del 1964. 
«Pochi mesi dopo mi operai alle tonsille. Per due giorni non riuscii a parlare e una volta ripresa la voce, al prete in visita che mi domandava per quale squadra tifassi mentre armeggiavo chino sulle figurine Panini, risposi Juventus». 

La squadra tifata da una parte di Torino, ma anche la squadra delle mille province italiane. Cosa è per lei la provincia? 
«Guardi, la provincia per me, esclusa Prato, è un luogo orrendo. Nel senso che a Prato tutto ciò che vedo di mostruoso nelle città di provincia non lo vedo più perché lì c'è la mia vita. Ed è una città di provincia, Prato, anzi parecchio di provincia. Però a Prato io non sento quel rancido, quella muffa che si sente nelle città di provincia, dove vai e passi una sera o due e pur essendo bellissime, quando pensi di viverci per sempre ti viene voglia di fuggire. C’è una bella definizione di Enrico Filippini: “La Provincia ferve di inconsapevolezza». 

Che pericolo corre Sandro Veronesi, ora che è consapevole di ogni meccanismo, dopo quarant’anni di scrittura? 
«I pericoli di qualsiasi scrittore. Scrivere libri che non piacciono, fuggire al contrario da ciò che incontra il gusto dei lettori per una sorta di sfida: “ho capito cosa vi garba e non ve lo do più” o ancora, scrivere libri peggiori dei precedenti perché il meglio che c’era da dare è stato già dato». 

La farebbe disperare l'idea di aver dato il meglio?
«Ma io penso assolutamente di aver già dato il meglio. Scrivo e continuo a scrivere, ma non credo di poter far meglio di quello che ho fatto perché scrivo da 35 anni e non mi chiamo Italo Calvino. Einstein, che era Einstein, diceva che il periodo di brillantezza di un'intelligenza dura 10 anni. Aveva ragione. Il meglio che uno ha da dare lo dà in un decennio: se ha fortuna viene riconosciuto, altrimenti no. Ma dopo, per quanta curiosità o entusiasmo tu possa avere, c’è il declino». 

“Settembre nero” è un gran libro. I lettori continuano ad amarla. 
«Che il pubblico possa esserti fedele appartiene alla sfera del miracolo. Può succedere, mi è accaduto e meno male. Però, se mi domanda che ambizioni ho per il mio futuro e per la mia vecchiaia, ho ambizioni da lettore. Se mi dicono che muoio fra due anni, io non scrivo. Leggo. Sono più di 35 anni che sono “a giro”. Se qualcuno mi dà un calcio in culo e mi dice scansati, non lo posso biasimare. È uno che vuole un po’ di spazio. Io quello spazio l’ho avuto, restituirlo non mi toglie il sonno». 

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