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Tra Riccardo Scamarcio e i motori c’è una lunga storia d’amore che affonda le radici nel suo film-trampolino Tre metri sopra il cielo e arriva fino al nuovo Race for Glory – Audi vs Lancia che lo vede nelle triplici vesti di protagonista, co-sceneggiatore e produttore. Nel film, dal 14 marzo al cinema distribuito da Medusa, interpreta Cesare Fiorio, manager che per l’attore è metafora dello spirito creativo degli italiani: «Sopperisce alle mancanze del potere economico con l’ingegno, la passione e uno slancio emotivo comune con il suo team, in questo è molto italiano».
Il suo Fiorio dichiara di amare velocità e rischio. Lei?
«Lo stesso, non avrei fatto l’attore altrimenti. Se non ami il rischio non puoi farlo, quanto alla velocità anche il mio primo film era su questo».
Era appassionato di rally prima di girare il film?
«No, ma lo sono diventato. Nel film raccontiamo il Campionato del mondo del 1983, in cui il team Lancia, guidato da Fiorio, affrontò il team Audi in un’impresa che sembrava impossibile. È il mio quinto film con il regista Stefano Mordini, siamo una coppia di fatto ormai, ed è stata una sfida produttiva importante. Jeremy Thomas che ha prodotto film di Cronenberg e Bertolucci mi ha dato una grande mano sul piano internazionale».
Cosa le premeva raccontare?
«Trovo che questa storia racchiuda una metafora dell’Europa: a confronto ci sono due paesi, Italia e Germania, con la prima inferiore alla seconda per tecnologia e investimento economico. Eppure l’Italia riesce a vincere grazie alla propria creatività e a un pilota tedesco. Mettiamo in scena le differenze culturali dei paesi europei evidenziando che è proprio questo il loro valore: l’Europa è un continente bello perché fatto di tante diversità. Nel film tifiamo Italia, ma ci smarchiamo dal becero nazionalismo: vinciamo grazie a un pilota tedesco».
È patriottico?
«Un po’ di patriottismo ci sta, ma solo quello che include le differenze, non quel patriottismo stupido contro gli altri. Un patriottismo inclusivo».
Trova che il cinema in Italia sia ancora strumento utile ad aprire le menti?
«Rimpiangiamo Petri e Pasolini tutti i giorni, come Rosi e Scola. Oggi abbiamo Bellocchio, che è più esistenzialista. Abbiamo avuto film sul G8 come Ora o mai più di Lucio Pellegrini, che ho interpretato anche io, e Diaz di Daniele Vicari. Il cinema è la rappresentazione del Paese, il suo specchio: se alcune persone sono ancora interessanti e fanno buoni film significa che c’è una parte di italiani che ha ancora qualcosa da dire e la capacità di farlo. Puntiamo a difendere questa parte, aprendo anche alle nuove generazioni».
Ha citato il G8, di recente altre manifestazioni di studenti sono state represse con violenza. Che ne pensa?
«Ogni repressione del libero pensiero è sbagliata. Il potere che ci governa – in tutto l’Occidente – vuole che le persone non pensino, che consumino e basta. C’è un pensiero unico che ci viene propinato dalla mattina alla sera, neanche più i giornali e i telegiornali sono liberi. La repressione vista a Pisa mi ha ricordato quella del G8 di Genova, evento che ha distrutto la libera manifestazione di piazza e la partecipazione di ragazzi e famiglie nel contestare le scelte deprecabili dei potenti. Da allora è passata l’idea che si possano reprimere le manifestazioni in modo violento. Sono convinto che siamo in pericolo, abbiamo disarticolato l’architettura democratica accettando di vivere e votare con una legge elettorale anticostituzionale».
Alla domanda: “C’è qualcosa che la spaventa?”, Fiorio risponde: “perdere”. Lei di cosa ha paura?
«Della morte. Inutile fare tanti giri di parole».
La sua sconfitta più pesante?
«Mi sono successe tante cose, ho perso mio padre, sono diventato adulto, è nata mia figlia, sono diventato uomo. Sono avvenimenti che mi hanno cambiato profondamente. Perdere un padre – che ho vissuto fino all’ultimo istante – fa paura. Ho già perso amici in incidenti stradali, ma vedere mio padre morire è stata una presa di coscienza del fatto che accadrà anche a me. Questo spaventa e impone di accettare i miei limiti, facendoli diventare parte integrante della mia persona».
È competitivo come un tempo?
«Inevitabilmente gli attori cadono nella competizione, la parte va sempre guadagnata, come la vita. È un provino continuo. Ma io amo la rivalità sana e onesta, e sono pronto ad ammettere la sconfitta. Anzi, come Cesare Fiorio ho capito che bisogna prevederla, anche se ossessionati dalla vittoria. Quel che veramente si vince è una nuova consapevolezza: capire che la sconfitta fa parte del gioco. Va compresa e accettata».
Il successo impone un’attenzione spesso morbosa su chi lo ha. Lei come la vive oggi?
«Autografi, foto e riflettori stancano. Sia chiaro, sono felice quando mi fermano per strada – se non ho la luna storta, come tutti – però ho un rapporto intimo ed egoistico con il mio mestiere».
Cioè?
«Non ho deciso di fare l’attore per ambizione, che è un motore imprescindibile, o per la chimera del successo. Ho sempre inteso il mio mestiere come una missione, una necessità, un modo per conoscermi, mettermi alla prova, tirar fuori quello che ho dentro, nutrire la mia umanità. Crescere».
Ci è riuscito?
«Sono stato fortunato: nel cinema ho incontrato tante persone belle, intelligenti, sensibili. Si dice sempre che sia un mondo effimero e superficiale, invece posso garantire che si fanno incontri preziosi e appassionati».
La infastidiscono le intrusioni nel suo privato?
«Mi infastidiscono da sempre. Mi difendo non commentando».
Se sintetizzo la domanda sul privato facendole il nome di Benedetta (Porcaroli), cosa risponde?
«Benedetta di nome e di fatto».
Se non fosse un personaggio pubblico sarebbero diverse le sue relazioni?
«Non credo. Alcune cose a volte si complicano perché ho tante persone intorno, ma in sostanza i miei amici sono i soliti quattro di sempre».
Come ha fatto a non farsi travolgere dal successo da adolescente?
«Ho avuto due genitori che mi hanno trasmesso valori importanti, insegnandomi a non essere mai subalterno ai lustrini e a non farmi abbindolare da false attenzioni. Ma in maniera naturale, non ideologica».
È stato importante lavorare all’estero?
«Cercavo posti in cui nessuno sapesse chi fossi per ricominciare da capo e reinnamorarmi del mio mestiere senza i pregiudizi inevitabili di quando diventi un personaggio pubblico. Nel mio privato sono sempre rimasto lo stesso Riccardo che cerco tuttora di preservare».
Se rincontrasse oggi il Riccardo di Tre metri sopra il cielo cosa gli direbbe?
«“Stai tranquillo che non hai ancora visto niente”».
Rimpianti?
«Non riusciamo mai a comprendere davvero il valore della giovinezza. Ce ne accorgiamo solo quando l’abbiamo persa, parlo di quell’ingenuità tipica di chi non ha esperienza».
A proposito di esperienza, sente di averne accumulata abbastanza per un’opera prima da regista?
«Per ora non sento questa necessità, facendo il produttore do già sfogo alla mia parte autoriale. Diverso è per attori stabilizzati come Paola Cortellesi che hanno dalla loro tanta esperienza. Io non ho voglia di fare il regista».