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Se la nostra civiltà è diventata grande con il pane

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Lorenzo Cafarchio 23 febbraio 2025

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Bianco, nero, lievitato, azzimo, di forno, industriale, fresco, a lunga conservazione e molto altro ancora. Il Saggiatore ha dato alle stampe Storia del pane. Un viaggio dall’Odissea alle guerre del XXI secolo (184 pp.; 17,00€) scritto da Gabriele Rosso. È un viaggio nella storia del lievitato per antonomasia, protagonista assoluto delle nostre tavole. Una centralità che, a causa della carbofobia dilagante, nell’appetito dell’uomo d’oggi va svanendo sempre più. Lo dicono i numeri. «Nel 1980 in Italia si consumavano circa 84 chilogrammi di pane pro capite all’anno, nel 2024 siamo scesi a 30, che corrispondono a circa 80 grammi al giorno», scrive Rosso. Ha voglia, quindi, il filosofo bavarese Ludwig Feuerbach dall’alto della sua gastroteologia a gridare al mondo che «l’uomo è ciò che mangia», ma senza scarpetta - ora che si sono inventati anche la pasta che la fa al posto della pagnotta - cos’è realmente?

In questo bailamme, orientarci nella storia della nostra alimentazione, è un vero enigma. «Chi ha inventato il pane, come ci è arrivato, quando lo ha fatto, dove lo ha fatto non lo sapremo mai». È la letteratura a correrci in soccorso. Ne L’epopea di Gilgameš, millecinquecento anni prima di Omero eccolo l’eroe che compare tra le lettere, Enkidu non ha ancora raggiunto la sua trasformazione in uomo pienamente civile e il poema ci mostra come mangiare pane, accompagnato dalla birra - l’invenzione di un uomo saggio per dirla alla Platone, del resto chi siamo noi per contraddirlo - sia il passo verso un vero e proprio atto di civiltà. Lo scrittore di Mostar, Predrag Matvejevi, ci mostra come “nell’Antico e nel Nuovo Testamento” il pane «viene ripetutamente nominato e lodato». Nel Padre nostro chiediamo di darci «oggi il nostro pane quotidiano» e Gesù ci rammenta «io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete».

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Rosso pone l’accento su un concetto essenziale nella vita dei lievitati. «Tra miracoli e guerre fratricide a sfondo religioso, la tavola apparecchiata dal cristianesimo è sempre stata, quindi, una tavola “panecentrica”». Ritorna Feuerbach che ci mostra come nell’Antico Testamento, fondamentalmente, mangiare equivale avivere. Ma forse abbiamo perso quello spiraglio, quella visione e quella sostanza. L’allontanamento dalla fede ci ha condotto sempre più lontani dal pane che in prima istanza è il corpo di Cristo. Una crisi di credenza che ripercuote i suoi sviluppi anche nella nostra dieta. Passano le ere e nel Medioevo la pagnotta inizia la sua corsa verso il nord Europa, come non dimenticare, poi, la frase attribuita erroneamente a Maria Antonietta d’Asburgo Lorena, durante la Rivoluzione francese, «se non hanno più pane, che mangino brioche». Oppure Alessandro Manzoni che ne I promessi sposi racconta dettagliatamente l’assalto al forno delle grucce, durante il tumulto di San Martino, nel pieno di Milano. Eccolo appena sfornato, con la sua fragranza, i suoi armonie la sua sete di fame che portano in dote il viatico principe delle rivoluzioni. Alcuni casi? La rivolta della farina a New York nel 1837, i moti di Milano del 1898 - detti anche protesta dello stomaco - lo sciopero del pane e delle rose di Lawrence, in Massachusetts, le rivolte in Egitto, correva l’anno 1977, Marocco nel 1981 o in Tunisia qualche primavera più tardi.
L’autore tra i capitoli ci rammenta le parole di Jacob, autore de I seimila anni del pane, il quale indica come il pane sia «il più grande alleato di un esercito; il soldato non marcia più in là del suo stomaco».

E in Russia Napoleone ha perfettamente presente questo concetto quando afferma: «Oggi la sorte dell’Europa e i più grandi calcoli dipendono dai vettovagliamenti. Battere i russi, se ho del pane, è un gioco da ragazzi». Corsi e ricorsi storici. La corsa delle farine continua e ci conduce al XX secolo dove il pane diventa industriale. Anno? 1928. «Il pane industriale prometteva pulizia e asetticità, in un’epoca in cui stava montando una crescente sfiducia verso chi produceva cibo per la vendita al pubblico». In tutta questa opulenza e abbondanza, ricordando i concetti del filosofo Jean Baudrillard, veniamo massicciamente circondati non da altri uomini, ma da oggetti. Standardizzati e sempre più asfissianti. E in questo scenario «il pane è diventato per noi una questione privata». Non più quindi un rito collettivo, una danza attorno al forno, ma un consumo dove la scelta è tra panificatori artigianali o industriali e il consumo avviene in maniera riservata tra le quattro mura della nostra casa.

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