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Simone Vagnozzi, coach di Sinner: “Il segreto di Jannik è prendere la vita con leggerezza”

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TORINO. Simone Vagnozzi è il coach di Jannik Sinner all’interno di un team che comprende anche un altro grande allenatore, Darren Cahill, una sorta di consolato tecnico che ormai da tre anni funziona alla perfezione.

Simone, ci racconta questo 2024 decisamente intenso?
«È stato un anno pieno di prime volte: la prima vittoria Slam, la prima volta n.1 al mondo. Abbiamo avuto anche a che fare con problemi che conosciamo tutti. Bisogna sapersi adattare».

Qual è stato il ruolo del team nel gestire tante situazioni?
«Il merito maggiore va a Jannik, che entra ogni giorno in campo con le giuste motivazioni. Quello che gli piace fare è giocare a tennis, competere. E se dice che non gioca per soldi, è la verità. I montepremi e la fama sono un incentivo, non il punto di partenza. Quello che fa partire tutto è la passione di Jan».

Come decidete gli obiettivi a inizio anno?
«Si parte da un’idea di massima, poi ci si muove in base a i risultati. Se vai sempre in fondo ai tornei salti qualcosa, se perdi nei primi turni, inserisci un evento in più per “sentire” la competizione e tornare a vincere».

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Il momento più esaltante del 2024?
«Gli Australian Open. Vincere il primo Slam ti toglie un peso dalle spalle. Da lì è partito tutto quello che sta succedendo ora».

Più degli US Open?
«Lì la vittoria aveva un altro senso, per quello che è successo».

Il momento peggiore?
«Non sono stati mesi facili. La sconfitta più bruciante per me resta quella con Medvedev a Wimbledon. Jan stava giocando un ottimo tennis, pur non essendo pronto fisicamente. Ha portato Daniil al quinto, quasi vinceva. E c’era tanto dietro».

La sua tenuta mentale in quei mesi è stata impressionante.
«Da quel lato Jan è fortissimo, in campo dimentica tutte le problematiche. Noi abbiamo provato a dargli più supporto possibile, evitando di pensare a quello che non potevamo controllare. Avere la coscienza a posto ci ha aiutato».

Date anche l’impressione di divertirvi molto.
«Serve leggerezza. È vero che siamo giudicati da tutti, ma alla fine noi alleniamo e Jan gioca a tennis: non siamo scienziati, non salviamo vite. È giusto rimanere con i piedi per terra e non dimenticare quanto siamo fortunati».

Al team si sono aggiunti Marco Panichi e Ulysses Badio.
«Due persone simpatiche, rispettose, con cui si sta bene. Ed è la cosa principale. Poi i metodi sono diversi, bisogna adattarsi. Cambiare in corsa non è facile, però sono due grandi professionisti, hanno lavorato con Djokovic. Dobbiamo prendere il meglio anche da loro».

Per il 2025 da cosa partirete?
«La parola più importante è “equilibrio”. Quando le cose vanno bene bisogna cercare di stravolgere il meno possibile, inserendo qualcosa di nuovo. Rispetto a due anni fa Jannik è più completo, più forte fisicamente, ha più esperienza. Il piatto è quasi pronto, ma non ti puoi adagiare. Ed entrare in campo sapendo di fare qualcosa di nuovo aiuta, è fondamentale per le motivazioni».

Al piatto “quasi pronto” cosa manca?
«A questo livello, dettagli minimi. Jannik non sarà mai Alcaraz, il suo è un tennis diverso. Ma può variare di più il servizio, migliorare lo slice di rovescio. Ha aggiunto la smorzata di diritto, poi verrà quella di rovescio, può leggere meglio i momenti del match. I Tre Grandi si sono sempre evoluti, lui deve fare lo stesso».

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Lui e Alcaraz domineranno il tennis?
«Ci sono altri che possono bene. Penso a Zverev: se si sblocca e trova l’acuto diventerà un pretendente. La cosa di cui sono certo è che Jan e Carlos resteranno lassù per tanti anni».

Dopo un anno così, quanto sono importanti le Finals?
«Molto, e in Italia lo diventano ancora di più, soprattutto quest’anno che Jannik non ha potuto competere a Roma».

Chi è il favorito?
«Siamo alla fine di un anno estenuante. C’è chi sta meglio, chi è cotto, difficile fare pronostici. Il campo è più lento rispetto altri anni, quindi più adatto ad Alcaraz. Ma sono gli otto più forti del mondo».

Cahill è stato italianizzato?
«Nel mangiare sì, nella lingua no. Ci stiamo lavorando».

A lui toccano le rifiniture.
«Porta la tranquillità dell’esperienza. Queste situazioni le ha già vissute. Ci dividiamo i ruoli comunicandoci tutto. Anche perché se io dico a Jan di divertirsi, e Darren che è la partita della vita, non funziona».

Certi attacchi dall’interno dell’ambiente vi hanno disturbato?
«Se parli di qualcosa, devi essere informato. La sentenza è lunga 50 pagine, non so quanti le hanno lette. Non si possono fare confronti con casi diversi, come quello di Simona Halep. Ma nello spogliatoio tutti sanno che Jannik non ha fatto nulla di sbagliato».

Eppure è sotto processo. Un paradosso?
«Se fossi un giocatore meno sereno di Jan, sarei preoccupato sapendo che non ho avuto nessun vantaggio, ho fatto tutto il possibile per evitare contaminazioni, eppure rischio lo stesso la squalifica».

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