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Caro direttore, il potere che governa il mondo sta modificando sotto il nostro sguardo attonito la sua stessa natura. Esso non coltiva più il valore del pudore e considera ormai ogni inibizione, ogni timida forma di riguardo, alla stregua di un’imperdonabile debolezza. Ostenta ogni giorno la sua familiarità con la ricchezza quasi che la fortuna negli affari sia tornata ad essere la traccia più vistosa della benevolenza divina. Pretende addirittura di arruolare Dio sotto le proprie bandiere come usava nel Medio Evo. Infine, ama esibirsi in quella sua postura baldanzosa, impietosa, monumentale che serve a classificare ogni obiezione e ogni dissenso iscrivendoli d’ufficio nella categoria di un disturbo non meritevole neppure di quel briciolo di ascolto che ha sempre fatto tutt’uno con l’idea della democrazia. Esagero? Può essere. Ma non più di tanto. Il fatto è che il potere dei nostri giorni ha scelto ormai la sua nuova maschera da indossare. Quella maschera non sorride più, digrigna i denti. Non pretende di convincere, preferisce spaventare. La sua cifra è racchiusa nella apparente inesorabilità della sua forza. Trump è l’esempio più vistoso di tutto questo. Ma non è l’unico. Alle sue spalle e nella sua ombra sta mettendo radici un sentimento diffuso che nega la fatica stessa di discutere, confrontarsi, ammettere che qualcun altro possa avere idee migliori, accettare il rischio di modificare la propria opinione, riconoscere la propria stessa debolezza.
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Anche in questo caso viene da aver paura del Trump che sta in noi, oltre che di quello assai poco amichevole e rispettoso che nel frattempo s’è sistemato sopra di noi. E però, dopo esserci lamentati e preoccupati, dovremmo anche chiederci se questa crisi così profonda del nostro antico ordine politico non sia cominciata appunto da noi stessi, dalla poca cura che abbiamo avuto dei nostri ordinamenti e delle nostre tradizioni, dalla debolezza con cui abbiamo difeso le basi morali e materiali di una costruzione politica che avrebbe avuto bisogno di un maggior accudimento. Il punto di frattura sta infatti nel modo in cui abbiamo lasciato deperire i nostri ordinamenti, inseguendo le demagogie più fantasiose e le novità più improbabili come se la conservazione di certi antichi costumi e di alcune buone abitudini fosse diventata troppo onerosa. Il fatto è che quando un vecchio ordine di cose viene meno e d’improvviso si fa largo una sfida che appare insieme come un’irrisione e come un capovolgimento - quello che sta accadendo, appunto - si dovrebbe indagare con una certa severità proprio il modo in cui quell’ordine ha cercato di difendersi e dare un senso a se stesso. Poiché in realtà la novità fa sempre una certa fatica a farsi largo. E le tradizioni il più delle volte cadono da se stesse, avendo perso lungo la strada le loro ragioni fondamentali.
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È lì, in quel vuoto, che s’è prodotta la crisi della nostra amata liberaldemocrazia. Amata ma trascurata, per l’appunto. Illudersi che il nostro ordine di cose si rimetta in piedi da se stesso, al modo del cavallo del barone di Munschausen, non ci porterà lontano. Ma cogliere nella nostra difficoltà l’occasione per ripensare i tratti fondamentali della civiltà politica di cui siamo custodi dovrebbe essere un compito alla nostra portata. A patto di riconoscere che questa civiltà, chiamiamola così, vive principalmente di pazienza, di misura, di metodo. E cioè di tutte quelle cose che la furia dei combattimenti a cui stiamo assistendo brucia e consuma ogni giorno che passa. È l’indignazione che guida i nostri animi - e si può ben capire. Ma dovremmo piuttosto affiancarle la consapevolezza che per quanto le nuove autorità politiche si sentano forti per aver intercettato (momentaneamente) il vento della storia, quel vento non potrà durare più di tanto perché a sospingerlo provvede ora uno stato d’animo e non una cultura, un’insofferenza e non un progetto. Il nuovo potere infatti è troppo grottesco per regalarsi da sé una lunga durata. Ed è troppo spavaldo per non lasciar intuire, dietro certe sue torve apparenze, le sue stesse fragilità.
Il fatto è che la campana della paura suona a questo punto anche dalle parti dei suoi arcigni custodi. Così, alla fine è ancora probabile che siano i giocatori meno esagitati, quelli più capaci di governare se stessi e i loro stati d’animo, a scoprire di avere le migliori frecce al proprio arco. A patto di tenere ben fermi questi punti. Quelli che proprio noi abbiamo lasciato traballare mentre infuriava l’inverno del nostro scontento.