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Tredicimila chiamate in un mese I numeri dell’“effetto Giulia”

6 mesi fa 8
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«Guai a snobbare l’8 marzo e il 25 novembre o definire superficiale film come quelli di Paola Cortellesi. Va colta ogni occasione per parlare della violenza maschile contro le donne, una vera e propria guerra contro la libertà femminile sempre più efferata. Per questo quelle che denunciano sono delle guerriere, rivoluzionarie, ribelli, coraggiose che non accettano di sottomettersi alle regole e al sistema patriarcale. Altro che vittime». Lo dice Maria Teresa Manente, l’avvocata penalista che ha rappresentato la sua Associazione, Differenza Donna, parte civile nel processo per la scomparsa di Saman Abbas. È docente presso il CSM e la Scuola superiore della Magistratura, promotrice al Tribunale di Roma del Tavolo per la prevenzione della violenza domestica, componente dell’Osservatorio nazionale sulle leggi contro la violenza maschile presso il Ministero di Giustizia. Una storia valorosa fin dagli anni ’70 quando promuoveva la legge di iniziativa popolare per rendere lo stupro reato contro la persona e non contro la morale. L’8 marzo 2023 il Presidente della Repubblica l’ha nominata Commendatora.

Le chiediamo se sulla violenza domestica la situazione sta cambiando. «Le denunce aumentano, le donne hanno capito di rischiare la vita e si ribellano prima. Nel ’94 abbiamo aperto i centri antiviolenza e le case rifugio e ci arrivavano donne che subivano da decenni. Ora cercano aiuto dopo sei mesi, un anno».

A che dobbiamo questo cambiamento?
«Al movimento femminista. Ma le campagne di sensibilizzazione sono importantissime per l’emersione del fenomeno, vanno finanziate regolarmente, non solo il 25 novembre. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin questo tema ha avuto grande visibilità e ci sono state 13 mila chiamate in un mese al 1522, numero antiviolenza e stalking del Dipartimento per le Pari Opportunità, gestito da Differenza Donna».

Telefonano anche sorelle, genitori, cugine, amiche…
«È aumentata la consapevolezza della pericolosità della violenza psicologica. Non va sottovalutata, è un reato-spia. Il controllo, il possesso, l’isolamento, la denigrazione, l’umiliazione sono prodromici alla violenza fisica e poi ai femminicidi».

Cioè?
«Dalle denigrazioni alla violenza fisica ormai passa poco. L’intervallo fra un episodio di violenza e l’altro si accorcia. Adesso i maltrattanti sono rapidi ed efferati. Più la donna è indipendente e prima cerca di rompere la relazione, più lui tenta di sottometterla». Le donne autonome economicamente vengono credute anche meno delle altre nei tribunali, dice Manente: «Si giustifica l’uomo, la violenza viene derubricata a conflitto familiare, tu donna hai scelto di andartene e quindi, se lui diventa violento, va capito. Prevalgono stereotipi e pregiudizi patriarcali. La fine della coppia e di una famiglia è sempre colpa della donna che non sta nel ruolo, non soccombe alle regole di lui, ai suoi desideri. I giudici consentono domande come: Lei quanto tempo dedicava alla famiglia? E a lui? Cucinava?».

Voi dei Centri Antiviolenza dite che bisogna scappare ai primi segnali. Quali?
«Non sentirsi libera di fare quello che si vuole, dire quello che si pensa, perché si ha paura delle sue reazioni. È quello il momento in cui bisogna scappare da quell’uomo. E più sei realizzata, libera, capace di scegliere e progettare la tua vita, tanto più un uomo violento ti sminuisce. Quando senti questa violenza devi sapere che stai rischiando la vita».

Una donna le ha raccontato a che il marito le ha detto: “La tua risata mi è insopportabile”.
«Quanto odio deve provare chi pronuncia queste parole? Quanta invidia per la vitalità, per la forza, per il coraggio dell’altra, quanta volontà di annientarla? Donne stupende mi dicono: sono brutta, grassa, sciatta. Non si guardano più, si vedono con gli occhi del maltrattante».

Anche se lui non alza le mani?
«Sì. In alcuni femminicidio che ho seguito non c’era violenza fisica, solo psicologica. Ricordo una donna che si era laureata dopo il matrimonio, fra mille difficoltà. Il marito le dava ordini e compiti gravosi da svolgere in casa per impedirle di studiare. Il giorno della laurea non ha voluto accompagnarla. Poi le ha tolto l’automobile. Lei portava i bambini a scuola a piedi e prendeva la corriera per raggiungere il lavoro in un paese sperduto. Per sottometterla lui usava questo comportamento, non le botte. Alla fine Giovanna è andata dall’avvocata e gli ha fatto recapitare una lettera in cui chiedeva la separazione. Quella sera lui la ha ammazzata in camera da letto con 13 coltellate. Non le aveva mai dato neppure uno schiaffo. Condannato all’ergastolo, tutte le amiche di Giovanna sono venute a testimoniare. Il femminicidio non è mai improvviso, prima ci sono violenze su violenze, anni di stalking. Vanno dimostrate, altrimenti questi assassini prendono 9 anni, al massimo 12».

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