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Raggiungiamo Manlio Larotonda al telefono, a Bogotà. “Qui si sta benissimo, siamo in montagna”, risponde, con un accento che non ha perso l’impronta torinese. Però è dal 2012 che ha trovato in Colombia la sua casa, dopo viaggi che gli hanno aperto gli occhi sulle potenzialità, produttive e sociali, ma anche politiche e culturali, delle filiere del cacao. Se è vero che, al pari (e anzi ‘peggio’) del caffè, questo cibo è oggi un bene di consumo di massa, una commodity per la quale si pretendono prezzi bassi senza afferrarne la complessità, il suo lavoro insiste in direzione contraria. La sua Cacao Disidente è nata infatti per lavorare con i coltivatori, smantellare le logiche colonialiste e diffondere metodi di lavorazione che rispettino la qualità della materia prima, senza sofisticarla. Ottenendo tavolette, spalmabili, polveri — ma anche una versione 100% colombiana del gianduja — che dimostrano cosa dovrebbe essere, davvero, cacao e cioccolato.
Chi è Manlio Larotonda, gastronomo torinese trapiantato in Colombia
Nato a San Mauro Torinese 38 anni fa, Larotonda si è laureato all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e si è messo al lavoro con ONG impegnate del settore alimentare. “Il cibo è un tema antropologico tramite il quale si possono creare filiere virtuose, per le comunità”, ci spiega, “e per questo mi sono trovato a Bogotà; ero qui per lavorare con i ristoranti e i prodotti che sceglievano”. La dimestichezza col cioccolato, da buon piemontese, ce l’aveva già, “mi ero confrontato con alcuni professionisti che mi hanno spiegato delle cose, ma è qui che ‘ci sono finito a pesce’”.
Capisce che nel Paese, una delle aree più vocate per la coltivazione del cacao, c’è un potenziale enorme, non sfruttato. O meglio: non sfruttato nel modo giusta. Così fonda la sua Cacao Disidente, “con la ragione sociale di ‘El Colaboratorio’, perché siamo partiti proprio come un laboratorio, con test per capire il prodotto e sviluppare un metodo insieme a chi il cacao lo produce”.
Le criticità delle filiere industriali del cacao
Larotonda parla di un processo di ‘decolonizzazione’, spiegando come “nei paesi di origine l’industria straniera non solo ha monopolizzato il mercato, ma anche il modo di usare il cioccolato”. Basti pensare che la metà del cacao del mondo la compra un singolo player, “il quale, non avendo controllo sulla qualità della materia prima, standardizza il gusto con lavorazioni che inevitabilmente lo appiattiscono”. Ad esempio il concaggio, una tecnica di raffinazione in cui il cacao è scaldato e raffinato, “ma in quel modo lo cuoci, volatilizzi le sue proprietà”. Poi ci sono le aggiunte di burro di cacao e di zucchero, “per addolcire una materia prima che se ‘troppo’ amara è percepita come una medicina”. Un discorso che ricorda il caffè specialty? Proprio così.
Le questioni tecniche si riassumono così: il cacao è un seme che allo stato fresco contiene i nutrienti che servono allo sviluppo della pianta, ovvero forti antiossidanti, alcaloidi e polifenoli che per natura hanno un sapore molto astringente. Con i necessari processi di fermentazione, il seme ha l’‘impulso biologico’ di ‘rompere’ le sostanze amare e costruire composti aromatici. Occorre quindi partire da uno studio agronomico, chimico e organolettico per rispettare la diverse varietà, “e questo si può fare solo restando nei paesi di produzione. Far volare la materia prima nel mondo non ha senso”.
Assistenza in campo e lavorazione dal seme alla tavoletta: il lavoro di Cacao Disidente
Cacao Disidente lavora in ottica glocal, gestendo naturalmente la produzione bean to bar in Colombia ma rendendo disponibili i prodotti anche agli artigiani stranieri. “Strutturiamo cooperative di coltivatori” — a volte anche su terreni riconvertiti dal narcotraffico — “affinché adottino un sistema di controllo totale”. Come? “Pensiamo al vino: come verrebbe una bottiglia partendo dalla frutta acerba?”. Si studiano così le diverse varietà, che spesso crescono le une accanto alle altre, per cogliere al momento opportuno, dopo aver verificato le fasi della crescita (anche il momento della potatura).
Esistono poi dei centri di fermentazione comunitari da cui si inviano campioni per controlli, verifiche e feedback, “proprio come fanno gli enologi”. Dopo l’essiccazione, si decide come tostare ciascun micro-lotto, e poi i semi sono lavorati da Cacao Disidente, che reimpiega anche i prodotti solitamente di scarto, come buccia e polpa.
I prodotti e le attività di Cacao Disidente
“Facciamo anche corsi sia per i produttori che per gli chef, locali e internazionali”, il modo più efficace per cambiare la prospettiva su un ‘ingrediente’ misconosciuto. Le tavolette sono monorigine, ciascuna con il cacao di una delle sei zone di produzione, oppure ‘assemblaggi’ pensati ad hoc. Ci sono poi la polvere di cacao, le nibs, una versione da fare in tazza e una rivisitazione del gianduja, però con anacardi colombiani.
Cacao Disidente affianca anche gli chef locali che stanno imparando a valorizzare il cacao in ogni parte, oppure raggiunge l’Italia. Ad esempio la pasticceria siciliana di Corrado Assenza, “che fa un lavoro incredibile con gelato e ganache, solo a base acqua, senza altri ingredienti”.
Per info: www.cacaodisidente.com
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