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Non sarà l’Isis-K o Khorasan a far cadere Putin, semmai una congiura di palazzo. Per Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto affari internazionali, la minaccia rappresentata dal risorgente terrorismo dello Stato Islamico nella sua branca afgana (anti-talebana) non è tale da impensierire la tenuta del regime, né da determinare l’apertura di un nuovo fronte per lo Zar. «Il fatto che l’attentato sia andato in porto, è sintomo della fragilità del sistema di sicurezza e della vulnerabilità dell’Fsb, l’ex Kgb. Del resto – argomenta la Tocci – tutta l’attenzione della Russia, negli ultimi due anni, si è concentrata sull’Ucraina: è probabile che vi sia stato un abbassamento della guardia rispetto al terrorismo islamista. Ma se quest’azione dell’Isis-K racconta la debolezza dei servizi segreti russi, può invece rafforzare il regime, con misure quali la pena di morte e la legge marziale. Attentati di questa portata hanno prodotto una stretta repressiva nelle democrazie, figuriamoci in una dittatura».
Può essere stato Putin a orchestrare tutto per reprimere meglio?
«Non credo. Fin dall’inizio non ho voluto dare peso ai complottismi da una parte e dall’altra: né a quello per cui Putin avrebbe organizzato l’attentato per lanciare una mobilitazione, perché non aveva bisogno di questo massacro per farlo, né a quello che attribuisce la paternità dell’assalto agli ucraini, i quali non farebbero mai nulla che possa inimicare l’Occidente. Putin, però, aveva un interesse a ribaltare i fatti e insinuare il dubbio inquietante cella matrice ucraina. Primo, per distogliere i riflettori dalle fragilità del sistema. Poi, perché magari trova davvero qualcuno disposto a credere che siano stati gli ucraini e ritorna il dibattito in Occidente sul dare o no le armi a Kiev. Per quanto drammatico sia l’attentato alla Crocus City Hall, non cambierà la storia, né la direzione di marcia di Putin».
Non è abbastanza una minaccia quella dell’Isis-K?
«Lo è, ovviamente, come lo sarebbe in qualsiasi Paese, ma non costituisce una minaccia esistenziale allo Stato. Il jihadismo non lo è mai stato, pure quando si parlava di scontro di civiltà».
Che cosa resta da capire in questo assalto?
«Forse non c’è solo il jihadismo islamico. Forse, ci sono collegamenti con le pulsioni del Caucaso del Nord. La Russia è attraversata da divisioni etno-politico-religiose importanti. Ma Putin ha già escogitato la risposta efficace, il modello funzionale alle sue mire, ventiquattro anni fa con la Cecenia, dove a comandare è Kadyrov, suo alleato. Né ci sono indicazioni che il regime russo stia per implodere sotto la pressione di queste spinte o dell’attrito tra le faglie interne. L’implosione, se vi sarà, partirà dall’alto. Il terrorismo non richiama le masse».
È possibile che l’interesse comune della guerra al terrorismo apra uno spazio di dialogo tra Russia e Occidente?
«Ma no. L’avvertimento americano è stato per Putin una grande fonte di imbarazzo, e una delle ragioni per cui ha scaricato la colpa sugli ucraini. La collaborazione contro il terrorismo c’è a prescindere, per quanto gli americani abbiano dovuto dare l’allerta pubblicamente, il 7 marzo, non in privato. Tra qualche settimana, sono pronta a scommettere, non si parlerà più nei media o altrove dell’attentato alla Crocus City Hall».
Qualche effetto, però, l’attentato sembra averlo avuto sulla guerra in Ucraina, vista la spaventosa rappresaglia dei bombardamenti russi l’altra notte...
«I bombardamenti ci sarebbero stati in ogni caso. In questo momento gli ucraini hanno il grande problema delle forniture di munizioni, ma anche degli uomini da mandare a combattere. Non è tanto un problema di numeri in assoluto, ma di numero dei militari addestrati. È difficile fare al tempo stesso la guerra e il training ai nuovi soldati».