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«Dobbiamo fare in fretta». Per Giorgia Meloni il mandato è chiaro: bisogna liberare Cecilia Sala il prima possibile dal carcere di Evin. Anche a costo di non rimpatriarla immediatamente a Roma, ospitandola nella nostra ambasciata a Teheran, rilasciata ma ancora prigioniera. In condizioni umanamente dignitose però. Quelle stesse che le tre telefonate con la famiglia concesse alla giornalista l’altro ieri hanno chiarito non essere garantite dall’Iran. Una soluzione di «buon senso», spiega una fonte ai vertici dell’esecutivo, che - alla pari delle altre - resta da costruire.
IL VERTICE
Tutte sono state al centro della riunione tenuta ieri a palazzo Chigi. Un vertice di un’ora che Meloni ha voluto fosse in presenza. «Per un “gabinetto di guerra” bisogna guardarsi negli occhi» è lo spirito che l’ha portata prima a convocare Antonio Tajani, Alfredo Mantovano e Carlo Nordio e poi, «da mamma a mamma», la madre di Sala, con cui era inizialmente previsto “solo” un colloquio telefonico. La premier è infatti convinta che non possa passare il messaggio di una stasi nelle trattative con Teheran. Né bisogna far troppo affidamento sulla collaborazione delle opposizioni. Sul tavolo c’è quindi la necessità di un coordinamento, anche politico.
Il focus è però stato soprattutto operativo. Il passo da compiere è la formalizzazione delle accuse nei confronti di Sala da parte dell’Iran. «Non possono negarci a lungo un esame giudiziario fatto come si deve» ragionano ottimisticamente fonti diplomatiche, concentrandosi sulla possibilità che la debolezza delle accuse consentirebbe un ricorso agli arresti domiciliari. Misura cautelare che la giornalista potrebbe scontare, appunto, all’interno dell’ambasciata di Teheran. Un po’ come per un certo periodo era stato per i marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, rimasti a New Delhi in attesa del processo. Per riuscirci serve che almeno due tasselli vadano al loro posto. Il primo è che si chiariscano le accuse mosse nei confronti della 29enne, in modo che il ministero della Giustizia nostrano possa muoversi sui canali della difesa che ben conosce. Per farlo si prepara un’accelerazione nei confronti di Mohammed Abedini, l’ingegnere iraniano oggi detenuto nel carcere milanese di Opera su mandato di cattura internazionale degli Usa. Per il governo bisogna garantire ad Abedini le stesse condizioni, di detenzione e giudiziarie, richieste per Sala. Un gesto di buona volontà? Non solo. Se oggi la procura di Milano ha negato i domiciliari all’iraniano su input degli Usa, non è escluso che a stretto giro si possa virare verso una soluzione opposta. Un azzardo - la scarcerazione - che potrebbe facilmente generare un cortocircuito. Anche scatenando una guerra tra intelligence straniere su suolo italiano. Possibilità che, oggi, è considerato prioritario evitare. Il secondo tassello passa quindi inevitabilmente per tenere l’iraniano in Italia.
Roma non può permettere che venga estradato negli Stati Uniti o perderebbe quasi in toto il suo potere negoziale. Ciò vuol dire che - e questo è un punto a cui Meloni pare tenere molto - se è vero che non ci si farà ricattare dall’Iran, non sarà possibile consentirlo neppure agli Stati Uniti. «Viene prima il nostri interesse nazionale» è la convinzione ribadita ai suoi. In tal senso la premier potrebbe rivolgersi a Joe Biden tra una settimana, l’11, quando lo incontrerà a villa Pamphilij nella sua ultima visita italiana.
La relazione diplomatica con l’Iran d’altro canto oggi non pare garantire grossi spazi di manovra. L'aria tra le due cancellerie è molto rarefatta dopo l’ultimo che il regime ha irrigidito ulteriormente le sue posizioni. Tanto che alla Farnesina nella “vecchia guardia” c'è chi non nasconde che la scelta di inviare Paola Amadei in Iran come nuova ambasciatrice possa essere stata una mossa un po’ troppo oltranzista. Non per il valore di Amadei in sé, ma perché il tentativo di dare un segnale forte agli Ayatollah indicando una donna ora rischia di non impattare positivamente sulla già tenue possibilità di dialogo.