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"E' da scudetto e per me l'ha già vinto". Arrigo Sacchi esce allo scoperto: chi è la sua favorita

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Leonardo Iannacci 29 dicembre 2024

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Arrigo Sacchi regala spunti d’ottimismo relativi al nostro calcio, è questa la novità. Lui, sempre realista, analitico a tratti duro con il sistema-football. Gli chiediamo lumi e Righetto, così lo chiamava Gianni Brera, la spiega così. «Non è mai stata una questione di durezza la mia ma di lettura corretta di quello che vedevo. Il calcio, in Italia, vive contraddizioni storiche. Oggi le cose sembrano andare leggermente meglio. Guardate l’Atalanta, sta facendo un calcio grandioso rifuggendo furbizie e individualismi. La marcatura a uomo, con tanto di libero staccato, è figlia di un pressing da terzo millennio».

Un esempio di furbizie?
«Partiamo dai primi anni quando i padri fondatori inglesi portarono il calcio in Italia: non ci dissero che è uno sport individuale. Il concetto di catenaccio non lo insegnarono loro, lo facemmo nostro».

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Lei, in effetti, non ha mai apprezzato la la filosofia dell’io, nelle sue squadre, ma ha cercato di perseguire sempre quella del noi.
«L’Italia ha vinto con merito quattro mondiali e tante coppe europee con i club. Ma il calcio, e per decenni, non è stato visto come uno sport di squadra nel quale si deve offendere tutti insieme bensì come una disciplina individuale dove ci si deve soprattutto difendere».

Un esempio per attualizzare il concetto?
«Ho l’impressione che Motta, che è un allenatore molto bravo, nella Juve fatichi a estirpare il concetto secondo cui vincere non è importante ma è l’unica cosa che conta. Motta se la deve vedere con 50 anni di tradizione diversa dalle sue idee».

Il Napoli di Conte?
«Vive attraverso la ricerca del perfezionismo di Antonio».

E l’ottimismo della ragione di cui mi parlava all’inizio da dove le deriva?
«Da segnali importanti. Ho visto alcune partite della Lazio e sono rimasto colpito e affascinato dal calcio di Baroni, espressivo e mai individualista».

Vuole dire che il calcio italiano reduce da due mondiale saltati si sta davvero risvegliando?
«In parte sì. Si costruisce sempre con delle idee. Ora ne vedo qualcuna in giro: il Lecce ne sta proponendo di interessanti. Anche l’Empoli. Lo stesso Bologna post-Motta».

Quando dice che i club calcistici sono come le aziende a cosa allude?
«Alla costruzione e alla gestione: le aziende falliscono quando non si rinnovano, così il football».

Lei ha cambiato il calcio negli anni ’80 con il Milan. Il segreto di quella idea meravigliosa quale fu?
«Tutto partì dal grande club che avevo dietro le spalle e dal genio del presidente Berlusconi: dopo l’eliminazione in coppa contro l’Espanol, ci convocò tutti e, dopo 27 secondi di discorso, era nato il grande Milan».

Cosa disse?
«Si rivolse ai giocatori: questo è Sacchi, credo in lui. Chi non sta con le sue idee a fine anno può andarsene».

La coesione divenne possibile perché lei aveva dei campionissimi?
«No. Avevo grandi giocatori ma affidabili. Un campione può non essere affidabile».

Quello che succede nel Milan attuale cosa le suggerisce?
«Forse guardano troppo alle gambe dei giocatori, a quello che sanno fare, e poco alla testa. Io ho sempre valutato prima la testa».

Ma lei aveva Palloni d’Oro in squadra.
«Van Basten, il giocatore migliore, rimase fuori dalla squadra per mesi a causa di seri problemi alla caviglia ma in quel 1988 vincemmo ugualmente uno scudetto memorabile».

L’Europa vi ammirava...
«L’Equipe uscì con un titolo che mi inorgoglì parecchio: “Il Milan di Sacchi è uscito da un altro mondo”».

La partita perfetta?
«Ci andò molto vicino quella del 5-0 al Real Madrid, semifinale di Champions 1889».

Nostra idea: come filosofia, questa Atalanta dell’Ego di Bergamo (il Gasp), si avvicina molto al suo Milan.
«L’Atalanta sta facendo qualcosa di grandioso: può vincere lo scudetto anche se, nella mia considerazione, l’ha già vinto. Il merito è di Gasperini perché propone un calcio coraggioso e d’avanguardia».

Ma la più forte resta l’Inter?
«Ha due giocatori per ogni ruolo, una ricchezza notevole».

Quando nacque in lei, allenando, l’idea di evitare certe furbizie?
«Ero piccolo, a 8 anni vidi giocare la grande Ungheria ai mondiali del 1954 e rimasi affascinato da come proponeva il calcio quella squadra meravigliosa. Poi l’Ajax di Cruijff ha dato un impulso incredibile al calcio totale dove tutti appartenevano a tutti».

Passare dalla teoria alla pratica fu complicato per lei?
«Partivo da un concetto: il paese che ha dato i natali a Leonardo da Vinci e a Fellini non può essere composto solo da cretini e pensai che nel calcio si doveva cercare la perfezione attraverso il gioco, non il bieco individualismo attraverso le furbizie».

Il calciatore che la fece sognare quando era ragazzo, a Fusignano?
«Puskas. Molti anni dopo andai ad allenare il Real e Alfredo Di Stefano, che aveva giocato con Puskas, mi disse: “Ferenc era unico, a 40 metri dalla porta era più pericoloso di quando si trovava a sei-sette metri”».

Nei tempi moderni?
«Maradona, un giocatore al quale era permesso di essere egoriferito. ma di Diego ne nasce uno ogni 50 anni».

Spalletti non ha dei Maradona e per la nazionale deve scegliere fra pochi giocatori affidabili, per usare un suo termine, no?
«Anche perché non può utilizzare giocatori che, in campionato, giocano un calcio diverso dal suo».

Un calcio furbetto?
«Certi vizi restano per sempre».

Sacchi, coltiva rimpianti nella sua carriera?
«No. Solo il dispiacere di veder valutati come non positivi risultati eccelsi».

Per esempio?
«Il secondo posto a Usa ’94, dopo la finale persa ai rigori contro il Brasile».

Gli azzurri arrivarono esausti, vero?
«Esatto e per un errore politico. Un anno prima aveva chiesto al presidente Matarrese di fare in modo di non giocare la fase iniziale a New York, dove a luglio ci sono 40 gradi e un’umidità del 100%. Non ci fu consentito. Andammo avanti in quel mondiale ma i ragazzi arrivammo a Pasadena lessati».

Non vi perdonarono un secondo posto significativo.
«Nel paese del furbetti e del risultato ad ogni costo, figurammo come primi dei perdenti. E questo è un peccato non veniale».

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