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«La tua zona è sotto attacco, hai 10 minuti per metterti al sicuro». Quando John Giordano, regista del corto A Deer Died Here, arriva a Kiev questo è il primo messaggio che riceve. «Ero sfinito, dopo 24 ore di viaggio (di cui 12 in treno) volevo solo andare a dormire». Si ritrova invece nel bunker dell’albergo.
È fine ottobre del 2024. Nella capitale ucraina c’è il “Molodist” Kyiv International Film Festival (nonostante la guerra) e il suo lavoro è finito nella selezione ufficiale. “Unico corto italiano incluso nel programma di corti internazionali”, come indicato dall’Istituto Italiano di Kiev. Un onore. Una storia che racconta di un giovane altoborghese che per un’estate decide di prendere in affido un adolescente. «In un quarto d’ora ci sono mille cambiamenti emotivi, è davvero molto potente. Sono questi i film che amo», ha commentato a STYLE MAGAZINE l’attore protagonista Eugenio Franceschini. Così, quando il regista riceve la mail di invito dalla manifestazione, non esita a partire.
Perché ha deciso di andare nonostante la guerra?
Il festival riprendeva dopo due anni di stop dovuti alla guerra e ci tenevano molto alla mia presenza. La lettera di invito diceva, tra le altre cose:
“Nonostante la guerra in corso contro la nostra nazione e la nostra cultura, riteniamo essenziale mantenere la vita culturale in Ucraina. Il festival si svolgerà a Kyiv dal 26 ottobre al 3 novembre 2024, grazie ai nostri eroi che difendono il Paese. Il tuo film sarà in concorso con altri talentuosi registi di tutto il mondo. Saremo felici di accoglierti per presentare «A Deer Died Here» di persona...”
Ho sentito subito che volevo andare, anche se inizialmente ho avuto vari timori e il mio compagno era contrario. A convincermi è stata anche una cara amica ucraina, Kateryna, conosciuta durante gli studi a Londra. Era a Kyiv in quel periodo e mi ha offerto supporto: sapere che avrei avuto un punto di riferimento in città mi ha aiutato a decidere.
Il conflitto e le bombe non ti hanno spaventato?
Dal primo momento in cui ho ricevuto la loro email ho sentito di voler andare, nonostante i molti timori. Facevo incubi su ciò che avrebbe potuto succedermi e il mio compagno non voleva che partissi. Quando mi è arrivata la lettera del festival, lei si trovava a Kyiv per far visita a suo padre; ne abbiamo parlato e ha deciso di prolungare di una settimana il suo soggiorno per rivedermi dopo tanto tempo.
Come sei arrivato a Kiev?
Ho preso un volo Roma-Cracovia e, una volta atterrato, mi sono diretto alla stazione centrale di Cracovia per prendere un treno verso Przemyśl, a circa tre ore e mezza di viaggio e 30 km dal confine ucraino. Sono arrivato verso le 23.
Allo scendere dal treno, ho seguito le persone e mi sono ritrovato in una fila di circa 300 persone nella nebbia. Ognuno aspettava il proprio turno per i controlli. In gran parte erano donne, bambini e uomini anziani; pochi giovani uomini, forse qualche giornalista. Tutti piuttosto tranquilli e gentili, come se fossero abituati a quel “rito di rientro”. Alcuni scattavano foto, altri offrivano tè o caffè caldo in thermos. Dopo circa un’ora di fila, ho mostrato la lettera di invito del festival e mi hanno timbrato il passaporto per l’ingresso.
A quel punto ho preso un treno ipertecnologico diretto a Kyiv, con fermate intermedie a Leopoli (Lviv) e un’altra città a un paio d’ore dalla capitale.
Quando hai percepito che ti trovavi in una zona di guerra?
Al confine, dopo circa 35 minuti di viaggio in territorio ucraino, il treno si è fermato per due ore in mezzo al nulla.
Guardando fuori, c’erano solo binari. Sono saliti molti agenti delle forze dell’ordine che hanno controllato documenti, borse e la motivazione del viaggio. Hanno scansionato il mio passaporto con un macchinario portatile e mi hanno fatto varie domande. Si avvertiva la tensione, come qualcosa di costante e non occasionale.
Quanto è durato il viaggio?
In totale, 10-12 ore contando le soste. Le luci sul treno rimangono soffuse di notte, per non renderlo visibile dall’esterno. All’alba ho deciso di restare sveglio: Kateryna mi aveva detto che il paesaggio tra la Polonia e l’Ucraina era spettacolare, con alberi altissimi, ghiaccio, laghi e piccole baite di legno. Mi ha ricordato un film di Tarkovskij (senza voler mancare di rispetto all’Ucraina, era l’unico paragone che mi venisse in mente).
Arrivato a Kiev che impatto ha avuto il coprifuoco?
Alle 23 non c’è più vita in strada: niente taxi, nessun locale aperto. Per una città di 4 milioni di abitanti è un cambiamento notevole. Devi organizzarti di conseguenza.
Ha influito sul festival?
Sì, tutto era anticipato. Ci si trovava a bere molto presto e si cenava già alle 18. Alcune proiezioni sono state interrotte per il rischio di un attacco.
Allarmi?
Appena arrivato, mi hanno fatto scaricare un’app di geolocalizzazione che segnala gli attacchi in arrivo. La prima notte, intorno alle 22, ho ricevuto il primo allarme, come una sirena di guerra.
Ti è arrivato un messaggio sul cellulare. Cosa c'era scritto?
Diceva che la zona circostante sarebbe stata colpita e che avevo 10 minuti per mettermi al sicuro. L’hotel in cui ero aveva un bunker, così ci siamo spostati lì.
Solo voi?
No, c’erano altre persone. Tuttavia, Kateryna a un certo punto ha detto che preferiva tornare a casa per poter dormire, dato che la mattina seguente doveva lavorare. Mi ha spiegato che il vero pericolo sono spesso i vetri delle finestre che esplodono. L’enorme finestra della mia camera, che avevo trovato stupenda all’inizio, poteva diventare un rischio serio.
Cosa decidete di fare?
Abbiamo preso uno degli ultimi taxi disponibili e siamo andati a casa sua. Abbiamo dormito per terra in uno sgabuzzino tra due pareti portanti, secondo lei il posto più sicuro.
Ci sono stati altri momenti di tensione?
Sì, ricordo una sera in un ristorante. Mentre finivamo di cenare è scattato l’allarme: i proprietari ci hanno chiesto se volevamo portar via il cibo. Quando siamo usciti, nel cielo si vedevano delle luci che a prima vista sembravano fuochi d’artificio, ma erano in realtà droni russi o missili intercettati dallo scudo aereo.
Hai visto gli effetti di questi attacchi?
Sì, girando un po’ per la città ho visto macchine bruciate, palazzi distrutti, zone colpite dai bombardamenti. Nei primi giorni pubblicavo foto “belle” di Kyiv sui social, e alcuni dubitavano che fossi davvero in Ucraina o che ci fosse la guerra. Allora ho iniziato a mostrare anche le immagini più dure: allarmi, macerie, strade con i segni del conflitto.
Cosa ti è rimasto impresso?
A Kyiv percepisci una grande coesione. La città viaggia su un unico binario, le persone sembrano remare tutte nella stessa direzione e ti senti parte di qualcosa di più grande e protettivo. Poi ci sono le chiese, ricche d’oro e illuminate da candele che creano un’atmosfera soffusa. Ho visto genitori e nonni accendere candele per i vivi e per i morti, in un pianto molto composto e silenzioso.
Inoltre, c’è una forte “de-russificazione”: gli ucraini ci tengono a usare la forma “Kyiv” invece di “Kiev” (traslitterazione russa). Nonostante gli attacchi quotidiani, la città cerca di mantenere un minimo di normalità, seppur senza turismo e con grandi restrizioni.
Infine, ho vissuto un’ospitalità incredibile al festival. Credo di aver fatto il Q&A più bello della mia vita. Mi sono sentito onorato: la mia presenza e il mio corto, per quanto piccola cosa, mi sono sembrati un contributo a qualcosa di più grande.
Cosa è cambiato di te?
Ero partito pensando che l’Ucraina fosse un Paese arretrato. Invece ho scoperto una Kyiv tecnologicamente avanzata, ricca di chiese dalle cupole dorate, colline verdi e un profondo spirito di resistenza. Ora capisco molto meglio perché tanti ucraini, pur avendo la possibilità di stare altrove, decidono di tornare e difendere la propria terra: è un amore forte per la loro cultura e la loro casa.
Quanto a me, questo viaggio mi ha segnato in modo speciale. È difficile da descrivere, ma è stato come un salto nel tempo: le tante ore di viaggio, l’impatto diretto con la guerra, la prospettiva che cambia. Mi sono trovato con priorità diverse e, in un modo paradossale, più tranquillo una volta tornato a casa. Ho pianto molto sul treno di ritorno: è una di quelle esperienze che, ogni volta che la ricordo, mi trasmette nostalgia.
Allo stesso tempo, resto la stessa persona di sempre. Ho ancora i miei valori e le mie passioni, ma mi sento più ricco interiormente. Sono grato per aver vissuto qualcosa di così intenso, che mi ha aperto gli occhi e che oggi posso raccontare, portandomi dietro un pezzetto di quella forza e di quella cultura.