Home SignIn/Join Blogs Forums Market Messages Contact Us

I mosaici di Piazza Armerina che il governo non sa salvare

6 mesi fa 7
ARTICLE AD BOX

ENNA. Nel cuore della Sicilia, gli splendidi mosaici della Villa romana di Piazza Armerina giacciono in scandaloso abbandono, il Ministro della Cultura lo sa e si straccia le vesti, ma dichiara: non posso farci niente. E il brutto è che ha ragione. Ma andiamo per ordine: in due articoli di fuoco sul Corriere della sera (5 e 8 marzo), Gian Antonio Stella ha denunciato da par suo il degrado dei mosaici romani (il ciclo più vasto e celebre del Mediterraneo), la scarsa manutenzione, il deperire delle strutture di copertura, l’inabissarsi dei (pochi) fondi stanziati e non pervenuti, il calo dei visitatori. Destata dal letargo, la Regione Sicilia corre ai ripari; recupera un po’ di soldi, resuscita decreti sepolti, mette in rete foto per documentare la tutela. Ma quel che vi si vede è qualche rado operatore che cammina sui mosaici con scarpe qualsiasi, munito di ramazza come si fa nel garage di casa. Pezo el tacón del buso, avrà detto Stella nel suo Veneto natio.

Com’è possibile tanta approssimazione? E perché Sangiuliano non può farci niente? Il fatto è che la Regione Sicilia dal 1975 ha pienissima autonomia nella gestione dei beni culturali e del paesaggio: in quest’ambito lo Stretto di Messina è poco meno di un confine di Stato. In Sicilia conta l’assessore, il Ministro no. È una lunga storia, che vale la pena di ripercorrere. Il primo Statuto regionale della Sicilia (promulgato con Regio Decreto di Umberto II il 15 maggio 1946) è più antico della Costituzione della Repubblica: in quell’Italia in macerie si volle in tal modo arginare le spinte al separatismo dell’Isola. In quello statuto, la Sicilia avocava a sé il potere esclusivo su «tutela del paesaggio, conservazione delle antichità e delle opere artistiche e musei», ma tal piena devoluzione restò lettera morta per trent’anni esatti. Finché il 30 agosto 1975 due decreti “balneari” (D.P.R. 635 e 637) concessero alla Regione (e a quella sola) la piena autonomia. Non sfugga un paradosso: la totale devoluzione di una materia delicata come la tutela di paesaggio e patrimonio artistico e archeologico veniva soli sette mesi dopo la creazione del ministero dei Beni Culturali (29 gennaio 1975), oggi “della Cultura”. E come stupirsene, se la legge istitutiva del Ministero dimenticò di citare l’art. 9 della Costituzione? E se Spadolini, nel tracciare dopo un anno il bilancio del suo dicastero (I Beni culturali dall’istituzione del Ministero ai decreti delegati, 1976), citò solo le leggi del 1902 e 1909, dimenticando non solo la legge Croce sul paesaggio (1922) e le leggi Bottai del 1939, ma - di nuovo - la Costituzione?

Eppure, l’Assemblea Costituente, quando discusse il testo dell’art. 9 (proposto da Concetto Marchesi e Aldo Moro) ebbe piena contezza di quel che era da temere. La voce più alta e consapevole in aula fu quella del siciliano Marchesi: la Sicilia, egli disse, era già allora esempio di come «interessi locali e irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale». Di qui la necessità di affidare allo Stato le competenze sulla tutela «nella previsione che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale». Questo dice (ancora) la Costituzione, rispetto a cui la radicale devoluzione siciliana è un’anomalia. Al punto che il personale siciliano del settore appartiene a un ruolo separato e non comunicante con quello dello Stato: un archeologo in servizio a Messina non può esser trasferito a Reggio (e viceversa), anche se le due città dello Stretto, di fondazione greca, sono in stretta simbiosi almeno dal VII secolo a.C.

Molto più che “sul continente”, in Sicilia i funzionari dei Beni culturali sentono sul collo il fiato dei politici, le Soprintendenze sono organismi a misura di collegi elettorali più che centri tecnico-scientifici di ricerca e tutela, il degrado del territorio e gli sprechi sono sotto gli occhi di tutti. Due coraggiosi e competenti tecnici siciliani, Francesca Valbruzzi e Paolo Russo, hanno lanciato un libro-denuncia ricchissimo di dati, e dal titolo eloquente: Utopia e impostura. Tutela e uso sociale dei beni culturali in Sicilia al tempo dell’Autonomia (Scienze e Lettere, 2020). E il 6 marzo Legambiente ha diffuso una lettera aperta (alla presidente Meloni, al ministro Sangiuliano, al presidente della Sicilia Schifani) dove si definisce la Villa di Piazza Armerina «il buco nero dei beni culturali in Sicilia», chiedendo che venga «sottratta all’autonomia siciliana che ha dimostrato di non saperla tutelare e gestire», e di affidarla a un commissario nominato dallo Stato. Giusto: ma il problema non riguarda solo Piazza Armerina, né solo gli altri beni siciliani con etichetta Unesco: riguarda paesaggio e beni culturali e archeologici dell’intera Regione.

Quando dice che sulla Sicilia non ha competenza, il Ministro Sangiuliano ha ragione. Ma qualcuno nei suoi uffici dovrebbe ricordargli che il suo predecessore Antonio Paolucci, l’unico ministro veramente tecnico nei cinquant’anni di vita di quel Ministero (governo Dini), non esitò a recarsi a Piazza Armerina nella sua veste di ministro, e ottenne allora che il restauro dei mosaici fosse affidato all’Opificio delle Pietre Dure, ente statale con sede a Firenze: come lo stesso Paolucci scrisse sul Sole-24 Ore del 29 ottobre 1995. Ma anziché restituire la Sicilia all’Italia il nostro governo vuol fare il contrario: concedere piena autonomia (sul modello siciliano) alle Regioni che l’hanno chiesta, la Lombardia di Fontana, il Veneto di Zaia, l’Emilia-Romagna di Bonaccini. Prima di sposare alla cieca questa trista deriva, non sarebbe saggio che il Ministero della Cultura raccomandasse una pausa di riflessione e avviasse da subito un’indagine conoscitiva su come sono stati gestiti i beni culturali e il paesaggio nella Sicilia dell’autonomia? Distinguendo, in quell’esperienza che ha la stessa età del Ministero, la residua utopia dalla diffusa impostura. Studiare a fondo il “modello Sicilia” prima di trapiantarlo altrove sarebbe davvero il minimo.

Leggi tutto l articolo