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I tassi dei mutui scendono. Caccia alle opportunità

12 ore fa 2
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Quanti dobloni ci sono nei forzieri della Banca d’Italia? A quanto ammontano le riserve auree del nostro Paese? Dove sono dislocate? E il resto del mondo com’è messo in fatto di oro?

La riserva aurea di una nazione è l’insieme dei fondi di oro detenuti dalla banca centrale. Tale riserva è considerata una risorsa strategica: questo perché l’oro è tradizionalmente visto come un bene rifugio, che conserva il suo valore anche in tempi di crisi. Quanto più sono colmi i bauli di un Paese, tanto più, di norma, essi sono visti come un indicatore della sua solidità finanziaria e della sua capacità di onorare i debiti internazionali. Questo perché dalle riserve auree dipende la capacità di uno Stato di fornire garanzie ai propri partner commerciali e di chiedere prestiti nei momenti di difficoltà.

A riprova dell’importanza di possedere una riserva aurea ingente, anche l’Italia, talvolta, ha dovuto dar fondo al suo tesoro per far fronte a difficoltà economiche. Nel 1976, in piena crisi petrolifera, il nostro Paese chiese un prestito alla Germania di 2 miliardi di marchi. Prestito che, su indicazione dei Tedeschi, fu concesso soltanto a una condizione: il deposito dell’equivalente somma in oro, per un valore di 543 tonnellate.

Ma forse non tutti sanno che l’Italia non si qualifica affatto male nella classifica dei Paesi detentori di quel bel metallo giallo, raro e luccicante: dopo gli Stati Uniti, medaglia d’oro in fatto di possedimenti (nei caveau della Federal Reserve ci sono 8.133 tonnellate di lingotti), e dopo la Germania, che ne ha 3.352 tonnellate, noi ci posizioniamo sul terzo gradino (quarto, in realtà, se consideriamo il Fondo monetario internazionale, con un patrimonio di 2.814 tonnellate di metallo prezioso), con 2.452 tonnellate, costituite da oltre 95.000 lingotti, di peso variabile tra i 4,2 e i 19,7 chili, e per una parte minore da monete. Lingotti e monete provengono da epoche e parti del mondo differenti: alcuni pezzi giungono dall’Inghilterra, altri dagli Stati Uniti e dalla Russia e altri ancora hanno come marchio di emissione l’aquila che tiene la svastica, segno inconfondibile della Germania nazista. Dopo di noi seguono la Francia, con 2.437 tonnellate, la Russia, 2.336, e la Cina, 2.264, rispettivamente al quinto e sesto posto.

Eppure, non tutto l’oro italiano si trova effettivamente nella «Sagrestia», così si chiama il caveau, a Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Anzi, ad essere precisi, meno della metà del totale è custodito a Roma. Di quelle 2.452 tonnellate, 141,2 dormono sotto il letto del Tamigi, conservate nei forzieri della Bank of England di Londra; 149,3 si trovano alla Schweizerische Nationalbank di Berna, la Banca dei regolamenti internazionali; e 1.061,5 tonnellate sono conservate alla Fed di New York. Stiamo parlando di più del 55 per cento di oro custodito all’estero. Tale scelta deriverebbe da strategie di diversificazione finalizzate alla minimizzazione dei rischi e dei costi. Infatti, un quantitativo delle riserve viene custodito in prossimità delle principali piazze dove viene negoziato l’oro al fine di avere la possibilità, in caso di necessità, di poter vendere rapidamente e di minimizzare i costi legati al trasporto del metallo.

Eppure, tale dipendenza da custodi esteri solleva interrogativi sulla reale autonomia economica dell’Italia: in uno scenario di crisi internazionale, sarebbe davvero possibile recuperare il controllo di questo oro?

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