ARTICLE AD BOX
Simone Di Meo 15 novembre 2024
- a
- a
- a
C’è scritto nel codice di procedura penale che le avvocatesse in gravidanza possono chiedere (e ottenere) il legittimo impedimento entro i due mesi precedenti e i tre mesi successivi al parto. È una norma chiara (art. 420ter comma 5bis) che punta ad assicurare all’imputato il godimento del pieno diritto alla difesa e alla professionista la tutela della salute e del lavoro. A Venezia, invece, due giorni fa, si è verificato un episodio spiacevole, secondo quanto denunciato dall’avvocatessa Federica Tartara. Un episodio che ha portato la legale a denunciare al Csm e al locale consiglio giudiziario il magistrato (donna) del tribunale che le ha negato il rinvio di un processo condannando, per di più, i suoi due assistiti.
L’esposto, che Libero ha avuto modo di leggere, contiene una dettagliata ricostruzione di un caso che arriva a rinfocolare un clima in cui altissima è la tensione tra magistratura, politica e opinione pubblica. Tutto inizia il 4 novembre scorso, quando la Tartara assume la difesa degli imputati. Recupera l’incartamento, studia i documenti e, dopo una settimana, resasi conto della difficoltà di sostenere una lunga trasferta da Genova (dove vive ed esercita) fino alla Laguna, notifica al tribunale veneziano una richiesta di rinvio dell’udienza con tanto di certificato medico allegato. Il parto è previsto per la prima settimana di dicembre e sarebbe un inutile rischio per sé e per il nascituro sottoporsi a uno sforzo così impegnativo.
Attacco a Meloni e figlia, caccia alla talpa tra le toghe rosse: girano strane voci...
D’altronde, in questo caso, il legittimo impedimento congelerebbe la prescrizione e, quindi, non deriverebbe alcun pregiudizio all’amministrazione della giustizia dallo slittamento dell’udienza. Tutto sembra, insomma, pacifico dal momento che la richiesta dell’avvocatessa ligure si fonda su un riconosciuto dettato di una legge dello Stato. Per questo motivo, la Tartara incarica un sostituto di presenziare all’udienza per le formalità di rito e per avere contezza della data del rinvio. E arriviamo a martedì quando il giudice decide di disapplicare l’articolo del codice di procedura penale e ordina alle parti di andare avanti, comunque. Nessun legittimo impedimento, l’udienza finale si deve celebrare.
L’avvocato che si trova in quel momento a fare le veci della collega è sbigottito: non solo non ha preparato l’arringa difensiva, ma non conosce nulla del procedimento, né avrebbe potuto: il suo ruolo doveva essere esclusivamente di assistenza tecnica, così come accade centinaia e centinaia di volte in ogni tribunale d’Italia. Il giudice contesta all’avvocato assente l’eccessivo, a suo dire, numero di rinvii del processo (nonostante la Tartara avesse assunto l’incarico da circa una settimana).Inoltre, da quel che è stato scritto nell’esposto indirizzato al Consiglio superiore della magistratura, la toga avrebbe addirittura criticato l’avvocatessa che, benché incinta, avrebbe accettato comunque la nomina pur nella consapevolezza di non poterla onorare fino in fondo.
Un atteggiamento che, se fosse confermato, dimostrerebbe non solo l’insensibilità della giudice verso una professionista del suo stesso sesso, che ha tutto il diritto di poter godere delle tutele riconosciute dallo Stato ai dipendenti pubblici (quali sono appunto i magistrati), ma anche l’eccessiva disinvoltura verso il codice di procedura. Risultato? La giudice, disinteressandosi completamente del diritto alla difesa dei due imputati, che non hanno potuto contare sull’arringa del loro legale di fiducia, li ha condannati a due anni di reclusione con la sospensione condizionale della pena per uno solo di loro, oltre al pagamento di una provvisionale di 15mila euro in favore della parte civile. Il caso della giudice di Venezia potrebbe però portare a spiacevoli conseguenze non solo dal punto di vista disciplinare: lo stesso processo è a rischio nullità visto che la decisione della toga ha leso il diritto alla difesa costituzionalmente garantito.
«Esprimiamo la nostra indignazione per il trattamento riservato alla collega, a cui non è stato riconosciuto il diritto al legittimo impedimento, nonostante un rinvio non avrebbe inciso sulla prescrizione», spiega a Libero l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale. «Questo episodio, se confermato, rappresenterebbe un atto discriminatorio e si inserisce in un quadro più ampio di attacchi alla professione forense. È inaccettabile che agli avvocati sia negata la possibilità di esercitare il proprio ruolo in piena autonomia e tutela. Chiediamo al legislatore di intervenire con urgenza per fermare questa deriva e al Consiglio superiore della magistratura di verificare le circostanze e sanzionare la condotta del giudice ove sia riscontrata».