Home SignIn/Join Blogs Forums Market Messages Contact Us

L'appello dei veterinari: "Autorizzateci a prescrivere il farmaco che salva i gatti"

11 ore fa 1
ARTICLE AD BOX

Claudia Osmetti 30 gennaio 2025

  • a
  • a
  • a

 Il farmaco c’è, ma non si può usare. Non per un capriccio (certo), men che meno per crudeltà gratuita (ci mancherebbe il contrario): per un’esigenza di salute collettiva che, d’accordo, mica è una sciocchezza. Però il risultato è che il 96% dei gatti che contraggono la fip (la peritonite infettiva felina) muore se non viene curato. E tu resti lì, con Milù o Gomitolo che non mangia, che dimagrisce a vista d’occhio, con la febbre e persino con disturbi di carattere neurologico. Ti senti impotente, non puoi fare niente. Anzi, ti senti beffato, perché una soluzione ci sarebbe ma è inaccessibile.

L’unica alternativa, quindi, è affidarti al mercato nero (fiorente, esteso, pure troppo), che viaggia sui social network e ti vende iniezioni (sottobanco) che possono costare anche 3mila euro (in realtà dipende dal peso del micio). Epperò controlli, a questo punto, zero: col risultato che l’allarme sulla panoramica complessiva, allora, rischia addirittura di ingigantirsi.

La soluzione più fattibile è che «a noi veterinari venga concesso l’utilizzo di un medicinale che è stato pensato per l’uomo e che è a tutti gli effetti un farmaco ospedaliero», racconta Francesco Orifici, presidente di Anmvi Lombardia e membro del comitato direttivo di Anmvi (ossia dell’Associazione nazionale dei medici veterinari italiani), «in modo che l’intero processo possa essere monitorato al meglio, visto che noi professionisti dichiariamo tutto quello che facciamo sul portale del ministero».

Passo indietro, per spiegare di cosa stiamo parlando. La fip è una malattia dei gatti non molto diffusa (riguarda circa il 2% dei nostri amici pelosetti) ma estremamente letale. «I gatti che vivono in casa difficilmente la prendono», chiarisce l’esperto, «è più diffusa in alcuni allevamenti non controllati o tra gli animali randagi, ma è infettiva e dunque anche i mici domestici sono a rischio, e può dare problemi anche anni dopo averla contratta. Non si può prevenire con un vaccino, tuttavia esistono alcuni farmaci che sono stati testati e sono efficaci per la sua cura».

Il problema nasce esattamente qui. Tra questi medicinali c’è il redemsvir che è «una molecola antivirale creata sostanzialmente per il virus ebola e che è stata impiegata anche nei confronti del coronavirus», quello che ci ha tappati in casa cinque anni fa. Il redemsvir, per le leggi italiane ma anche per quelle europee, non può essere somministrato su larga scala per scongiurare il più possibile l’insorgere di una situazione di antibiotico resistenza.

Attenzione, la questione non è di secondaria importanza: l’antibiotico resistenza è assai grave, non ha niente (o ha poco) a che fare con l’assuefazione da farmaci o la necessità di mantenerne delle scorte in previsione di, ce ne scampi il cielo, momenti emergenziali assai più vasti. È semmai un discorso tecnico e riassumibile così: i germi sono organismi che, se vengono combattuti continuamente con determinate terapie, riescono a mutare per “sfuggire” a quelle stesse cure (un po’ come avviene per l’influenza: ogni anno il vaccino che ci facciamo è differente perché ogni anno le caratteristiche del virus cambiano); in questo caso, se succedesse, sarebbe necessario trovare altre molecole da impiegare, ma per farlo la ricerca scientifica dovrebbe investire parecchio e per le case farmaceutiche, va da sè, non è conveniente. Da qui la «normativa particolarmente restrittiva» a cui sono obbligati i veterinari in tema di fip.

Normativa che, tuttavia, viene aggirata da un giro sommerso (e totalmente illegale) di gruppi su Facebook o su Telegram a cui si affidano tanti proprietari di gatti i quali, purché vedere soffrire il loro amato cucciolo, le provano tutte. «È diventato una sorta di “piazza dello spaccio”», continua Orifici (e per rendersene conto basta aprire una pagina a caso tra quelle dedicate su internet), «tramite messaggi privati si prendono appuntamento e si vendono delle fiale che probabilmente provengono dalla Cina ma sulle quali è difficile operare un reale tracciamento». Il tutto nel più totale abusivismo. Nel web c’è chi dà indicazioni più o meno accurate, spesso basate solo sui racconti dei proprietari e «sostanzialmente la terapia non è nelle mani del veterinario, ma di persone che non hanno nessuna competenza specifica sull’argomento», fatto che aumenta ulteriormente «il rischio che questo farmaco, prima o poi, inizi a fallire sia sui gatti e forse anche sull’uomo».

«Questo medicinale è assolutamente sperimentato, non viene utilizzato alla carlona. Tanto più che l’Unione europea, nell’estate del 2023, durante un’epidemia in corso a Cipro, ne ha concesso l’uso perché la sua efficacia è provata. L’ideale sarebbe che un’azienda farmaceutica lo producesse per l’impiego specifico veterinario», epperò in questi termini sembra uno scenario quantomeno poco probabile. «L’alternativa, allora, è dare la possibilità a noi veterinari di somministrarlo, così facendo potremmo veramente aiutare gli animali che è il nostro lavoro»: da una parte ci sarebbe una verifica maggiore e dall’altra si ridurrebbe al minimo il mercato nero che, invece, attualmente, prolifera.

«Questa è l’ennesima situazione in cui la salute degli animali va in parallelo con quella dell’uomo», chiosa Orifici, «ormai ragioniamo nell’ottica dell’one health (della “salute unica”, ndr) il cui controllo va fatto a 360 gradi. Il lavoro che ci attende è in combinazione tra medici, biologici e sì, anche veterinari: ognuno ha le sue competenze, ma se ci mettiamo tutti assieme si riesce a mandare avanti nel modo più proficuo la salute di tutti».

Leggi tutto l articolo