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“Tutti voi dovete afferrare la verità: il potere politico nasce dalla canna di un fucile”. Mao Tse Tung
Ho un amico torinese che insegna all’università di New York. Era qui in questi giorni. Mi ha raccontato di avere organizzato un gruppo di connazionali che vogliono appoggiare la campagna di Joe Biden nei prossimi quattro mesi. Volontariato. Gli ho chiesto: perché? «Perché Trump è un criminale». Meglio un uomo che non è più presente a sé stesso di un criminale? «Meglio. Attorno a lui c’è gente che sa fare il proprio lavoro. Gli Obama, i Clinton, i Blinken, il Paese non è andato male in questi anni», mi ha detto. E la democrazia? Nessuno andrà a votare per queste persone. Ha alzato le spalle. «Magari si trova un’alternativa. Magari Michelle». Magari, certo. C’era una volta la più invidiata democrazia della terra. Si è preso una pausa di qualche secondo. «Dopo questa storia mi sa che torno in Italia». Lo ha detto con amarezza, come se dovesse lasciare una fidanzata che ha amato moltissimo. Fine del sogno americano. Almeno per lui.
E per noi, per l’Europa, che cosa è diventato il nostro rapporto con Washington, a che cosa ci serve, dove ci sta portando?
Siamo entrati nell’era del disordine. Per ottant’anni gli Stati Uniti ci hanno dato sicurezza e messo addosso un po’ di paura. Adesso non ci fanno più né l’uno né l’altro effetto. Comunque molto meno. Nemmeno a loro stessi. Per il 63% degli elettori americani Joe Biden e Donald Trump sono – testualmente - «imbarazzanti», uomini che costruiscono un mausoleo a loro stessi anticipando la morte. Vecchi galli spelacchiati nel pollaio globale. Lo dice un sondaggio del Pew Research Center, secondo il quale The Donald, l’uomo del conato golpista di Capitol Hill, accusato di stupro e molestie da ventisei donne, condannato per il caso Stormy Daniels, sterilizzato nel limbo degli Intoccabili dalla Corte Suprema, avrebbe quattro punti di vantaggio nella corsa alla Casa Bianca. Non è un caso se nella sua villa di Mar-a-Lago c’è la fila di questuanti dell’internazionale fanatico-populista-qualunquista-ultranazionalista. Ultimo Viktor Orban, impresentabile presidente di turno di un’Unione che comincia a vedere con chiarezza la costruzione di due anime distinte e inconciliabili. I reazionari trumpiani-muskiani-putiniani-antizelenskiani e gli europeisti vecchio stampo, socialisti, popolari, liberali, persino conservatori, aggrappati nel bene e nel male a quel che resta della Nato e alla difesa di Kiev, anche loro incastrati nella profezia banditesca di Mao Tse Tung: “Il potere politico nasce dalla canna di un fucile”. Siamo tornati lì, trascinati da una pericolosa torsione della storia. Ossessionati dalle armi. Dal bisogno di riempire arsenali già capaci di distruggere mille volte il pianeta. Ne vogliamo altre. Davvero non esistono alternative? Come ha scritto ieri Massimo Cacciari su queste colonne: “La domanda da porre alle nostre leadership è questa, molto semplice, ed esse dovrebbero rispondere altrettanto nettamente: ritenete che la situazione attuale non presenti alternative all’escalation?”. Il paradosso è che a rispondere uno stentoreo «Sì» sono quelli che abbiamo sempre considerato i buoni, noi maggioranza del Vecchio Continente, assieme al Giappone e ai brandelli democratici degli Stati Uniti, mentre a fare ambigui e scivolosi distinguo ci sono i cattivi tradizionali, gli autocrati e i despoti illiberali, un gruppo di maschi ultrasettantenni (Xi Jinping, Putin, Modi e naturalmente Trump) capaci di risvegliare i peggiori istinti dello sciovinismo globale.
Anche Matteo Salvini, vicepresidente del consiglio Italiano, leader della Lega, ha prenotato il giro sull’ottovolante del Pregiudicato Americano, anche lui si è messo in fila, deciso a gestire le sue untuose fortune quotidiane sedendosi al tavolo di tiranni che si cullano beati nel loro ruolo da solisti, come se riuscissero a realizzarsi solo sentendosi abbietti. «Con Trump l’America garantirà al mondo sicurezza, famiglia e lotta all’immigrazione». Papà pensaci tu. E Trump ci penserà. Chiedendo più armi o smantellando la Nato, abbandonando l’Ucraina e lasciando libero Vladimir Putin di fare gli affari suoi anche in Europa. Quadro sconfortante. Ed è ancora più sconfortante che Matteo Salvini, con la superficialità degli arroganti, spieghi garrulo che «anche se siamo divisi sulla Ue il governo terrà fino alla fine». Come se il rapporto con l’Europa fosse una subordinata dei quattro giochetti da cortile che ancora può fare a casa nostra. A Roma porto la giacca. In Europa faccio la rivoluzione. Davvero Giorgia Meloni può accettare un alleato così? Un balletto tragico al quale il vicepremier intende partecipare a braccetto con le tribù filonaziste e illiberali di Germania, Francia, Spagna, Austria e Ungheria, contro gli interessi della soverchiante maggioranza moderata uscita dalle urne.
«L’accordo Orban-Putin rievoca sinistramente quello Molotov-Ribbentrop», mi dice ancora l’amico americano. Gli rispondo che è stanco, che sta esagerando, che l’Ungheria non è la Germania. Che è un altro mondo. «Sei sicuro che non sia lo stesso?» D’istinto rispondo di sì. Ma qualche dubbio mi rimane. Ripenso a Putin che dice: «Le capitali europee sono potenziali obiettivi». Parigi, Londra, Berlino, Roma. È di questo che sta parlando, con una disinvoltura che sembra leggerezza e invece è solo la spia di una crudeltà crescente. Come si ferma un uomo così? L’Europa può farlo in molti modi. Trattando ad oltranza. Costruendo una difesa comune, fondata su quelle economie di scala e sulla condivisione di ruoli e armamenti (a partire dalle atomiche francesi) che sono l’unica alternativa a un taglio drastico del welfare, di quella spesa sociale e solidale sulla quale abbiamo costruito la nostra unica, vera, straordinaria differenza.
Una vittoria dell’Al-caponesco Donald Trump il 5 novembre metterebbe seriamente in discussione non solo l’Alleanza Atlantica, ma il ruolo dell’Europa nel suo complesso. Una vittoria di Biden ci scaraventerebbe nell’ignoto. In quali mani finiremo? Il presidente americano ha ripetuto ieri, per l’ennesima volta, di non essere intenzionato a farsi da parte e io non posso fare a meno di pensare all’immagine che mi ha lasciato negli occhi la sua ultima apparizione tv. Un uomo instabile, prosciugato dalla vita, che, pressato dalle domande di chi gli chiedeva perché non si faccia da parte, ripeteva a bassa voce: “It’s not gonna happen” (“Non succederà”), con la rabbia che gli sigillava i denti e gli occhi fissi nel nulla. Non è il leader a cui affiderei il destino comune. Trump? Tanto meno. E dunque?
Mi rifugio ancora una volta in una riflessione di Massimo Cacciari: “Il mondo è sempre più irriducibile a Uno. L’Occidente possiede nella sua storia il linguaggio in grado di comprenderne questa straordinaria complessità. Lo ricordi, lo esprima, lo ponga in atto. O il suo non sarà solo tramonto”. Ha ragione. L’ombrello americano non durerà per sempre e non c’è quasi già più, dissolto dall’anello di Gollum del potere per il potere, dell’ambizione per l’ambizione, ostentato da Biden e Trump. L’Europa lo sa. La strada per evitare l’irrilevanza o, peggio, il disastro, è davvero stretta.