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Un rumor di sciabole, anzi uno sfregar di toghe: tutti sentivano il pericolo incombente. Poi, il rischio giudiziario si è materializzato, anche se sotto forma di atto dovuto. Per stare ai fatti storici, va detto che sono rari i casi in cui un capo di governo italiano nel pieno delle sue funzioni venga indagato, come ora sta accadendo a Giorgia Meloni. Di solito succede agli ex, si veda il caso Renzi con il processo Open da cui è stato scagionato nel dicembre scorso insieme a Maria Elena Boschi, a Luca Lotti, all’avvocato Bianchi e agli altri della compagnia di Matteo, accusati di prendere soldi per il Pd tramite la fondazione del leader fiorentino. Per non dire naturalmente e leggendariamente delle inchieste contro Bettino Craxi o contro Giulio Andreotti e via dicendo, che vengono accusati e attraversano il loro calvario quando ormai non detengono più lo scettro di Palazzo Chigi. Ma qualche volta, ben prima della vicenda odierna di Meloni, il premier che mentre fa il premier si vede rivolgere accuse giudiziarie - uno scudo di protezione servirebbe, ma vabbé - è una circostanza capitata. Accadde a Francesco Crispi. Da capo del governo, con Giovanni Giolitti ministro delle finanze e inquisito a sua volta, venne coinvolto nella celebre inchiesta sulla Banca Romana (1892-1894, esattamente un secolo prima di Tangentopoli). Un super scandalo (altro che caso Almasri!) e con super-personaggi (altro che l’avvocato Li Gotti!) che non riuscì a stroncare la carriera politica dei due, ma sia Crispi sia Giolitti portarono addosso le cicatrici di quella vicenda per l’intera loro esistenza. Vennero istituite una commissione parlamentare e un'inchiesta penale che misero sotto giudizio il governo, a partire dai suoi massimi vertici, e poi il processo si concluse con l'assoluzione di tutti gli imputati.
IL CAVALIERE
Ci sono esempi emblematici di governi travolti da inchieste. Non è il caso del governo Prodi nel 2008 perché allora non fu il premier ma il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ad essere colpito o meglio sua moglie Sandra dai fulmini, poi immancabilmente rivelatisi inconsistenti, dei pm. Ma quell’atto giudiziario provocò l’epilogo del secondo esecutivo del Professore che pure fu indagato, nel 2007, nell’inchiesta Why not. La vicenda più eclatante, e fu il premier ad essere personalmente investito dall’iniziativa dei magistrati che innescò di fatto la fine di quell’esecutivo, è quella riguardante Silvio Berlusconi alla sua prima prova di governo nel ‘94. La storia è quella dell’invito a comparire – spesso erroneamente scambiato per un avviso di garanzia – recapitato al Cavaliere e premier il 22 novembre 1994 e annunciato il giorno prima dal Corriere della Sera con un vero e proprio scoop, proprio nei giorni in cui il presidente del consiglio presiedeva una conferenza internazionale sulla criminalità organizzata a Napoli (spesso erroneamente scambiata per il G7 di Napoli, che si tenne qualche mese prima). Non esiste consenso unanime nel definire quell’episodio la causa della successiva crisi del governo Berlusconi – i berlusconiani hanno sempre detto di sì, Di Pietro ha sempre detto di no - che effettivamente cadrà sulla riforma delle pensioni, ma si può ragionevolmente far coincidere lo scoop del Corriere come un punto cruciale dell’allontanamento della Lega da Forza Italia.
I VIDEO
Le cronache di quelle settimane restano ancora negli occhi e nelle orecchie, e si potrebbero raccontare per pagine. Dal video che il giorno dopo Berlusconi mandò alle tivvù per difendersi (ora Meloni è ricorsa al video, e lo ha fatto per dare lei la notizia dell’avviso di garanzia e magari incassare il dividendo politico di questa anticipazione) all’irritazione che alcuni cronisti attribuirono allo stesso Di Pietro, allora pm a Milano, per la scelta dei suoi colleghi di notificare l’invito a comparire proprio durante la conferenza internazionale di Napoli. Ritorna a quel pezzo di storia, oggi Barbara Berlusconi, e lo fa così: «L’avviso di garanzia a Meloni, contestualmente alla riforma in discussione sulla separazione delle carriere dei magistrati, mi ricorda quel che accadde a mio padre a Napoli. Non so se si tratti, come la definiva lui, di “giustizia a orologeria” ma il sospetto è legittimo». Non è stata l’unica volta, per il Cav: nel 2010 arriverà l’indagine per Ruby “Rubacuori”, la presunta «nipote di Mubarak».
E comunque, cambiano i governi, cambiano i colori dei governi, e dall’azzurro di tanti anni prima si sarebbe passati al rossogiallo di tanti anni dopo, cioè del 2020, ed ecco un altro premier indagato: Giuseppe Conte, lui insieme a sei dei suoi ministri. Per qualche motivo? Per la gestione del Covid. Si trattò come nell’attuale caso Meloni, di un atto dovuto, tanto che lo stesso pm disse: «Accuse infondate, chiediamo l’archiviazione». Che arriverà nel 2023, ma nel frattempo Salvini tuonò: «Arrestate Conte e gli altri, hanno molti morti sulla coscienza». Ma poi tutto - la storia si ripete? - andò a finire nel nulla.