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Regionali Emilia Romagna, Bologna: il centrodestra evita la piazza. Meloni in collegamenteo video: «Camicie nere, disperazione a sinistra»

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dal nostro inviato

BOLOGNA Tra le rossastre nubi, stormi d’uccelli neri... Sceglie il giorno di San Martino, il centrodestra, per il comizio finale nell’avamposto dem in cui pare destinata a confermarsi l’Emilia-Romagna. E lo fa evitando la piazza per salire su un palco defilato, appena ai margini di una Bologna ancora alle prese con gli strascichi degli scontri di sabato, nella sala da poco più di mille posti dell’Hotel Savoia Regency. Qui, a sostegno di Elena Ugolini, sfilano le tre “b”: Bernini, Bignami e Borgonzoni.

Meloni non va al comizio del centrodestra a Bologna. «Incontro con i sindacati durato 5 ore, parteciperà in videocollegamento». E attacca Lepore

Ministri, vice e sottosegretari a cui tocca scaldare una platea che non nasconde una certa disillusione. Al di là dell’ovvia speranza ugoliniana («Il nostro sondaggio ci sarà il 17 e il 18» dice prima di chiudere con un sobrio «buonasera») le ultime rilevazioni disponibili non lasciano grandi speranze e fanno pendere le torri bolognesi verso Michele De Pascale, ganglio dem votato al “campolarghismo”. Tutti consapevoli, al punto che i più classici appelli al voto diventano quasi una lunga nenia protratta fino a quando a prendere la parola non sono i leader del centrodestra. Prima Antonio Tajani, Matteo Salvini e Maurizio Lupi in presenza. Poi Giorgia Meloni, ma solo in collegamento. Non perché, precisano i suoi, la Regione è considerata quasi perduta a differenza dell’Umbria, l’altra in cui si vota, ma perché l’incontro con i sindacati a Palazzo Chigi è andato per le lunghe.

La platea - in cui spicca la rappresentanza dei balneari con le felpe rosse e la scritta “salvataggio” - è delusa per l’assenza annunciata all’ultimo minuto dalla premier ma è pronta a osannarla. E lei non si tira indietro. Meloni tiene da parte le faccette che tanto male le hanno portato in Sardegna e tanto bene hanno fatto invece in Abruzzo, e si lascia andare almeno due volte all’ombra della commozione. Il resto è una sintesi dell’intero repertorio dei suoi ultimi interventi elettorali, dalla possibilità di «sovvertire i pronostici» ai buoni risultati economici segnati dall’esecutivo, fino alla querelle sui fondi destinati alla Sanità e ai contestuali attacchi ad Elly Schlein. Il culmine stavolta è però nell’affondo contro il sindaco di Bologna Matteo Lepore, reo di definirla una «picchiatrice fascista» in pubblico ma di chiedergli collaborazione in privato. «Ho letto una sua nota che diceva che il governo ha mandato le camicie nere a Bologna, è la carta della disperazione della sinistra - attacca la premier alzando i toni - Non so a quali camicie nere si riferisse, le uniche che ho visto sono quelle blu dei poliziotti aggredite dai centri sociali». Quella degli scontri di pochi giorni fa è una ferita aperta che sia Tajani che Salvini mettono in bella mostra.

GLI ATTACCHI
Se il titolare della Farnesina imputa alla sinistra di non aver preso le distanze dai «delinquenti e vigliacchi» e si gioca la carta Pasolini («Mi stupisce che la sinistra preferisca i figli di papà ai figli del popolo») il ministro delle Infrastrutture prima dice che «Gli unici fascisti rimasti sono quelli dei centri sociali» e poi rivela di aver fatto visita «senza le telecamere» ai vigili che hanno respinto i facinorosi, proponendoli per un encomio. La sensazione - vale da ambo le parti della barricata - è di una rievocazione un po’ forzata degli anni ‘70, o quanto meno della loro retorica. Gli anni in cui, esordisce Meloni, «c’erano Mao, Nixon e i Beatles pubblicavano Let it be», quelli in cui la sinistra «ha cominciato a governare» l’Emilia-Romagna, consegnandola alla «condanna» dello status quo e alla «beffa» che ora chi guida la Regione (o l’ha guidata come l’ex vicepresidente Elly Schlein) «dica che bisogna occuparsi più del territorio, come se fossero dei passanti».

La «lotta sociale» la premier però la evoca anche quando, archiviata una sinistra “fantozziana” («sono sempre umani loro» dice, riferendosi al suo recente stato influenzale), rivolge il mirino verso i sindacati. Gli stessi che ha appena incontrato per discutere della Legge di Bilancio: «Come mai hanno indetto oggi lo sciopero generale ma non lo hanno indetto quando i governi di sinistra invece di chiedere un contributo alle banche usavano i soldi dei lavoratori per salvare le banche?».

È questa la domanda che Meloni pone alla folla prima di concludere puntando il dito contro «la rivolta sociale» invocata «con toni senza precedenti nella storia sindacale», e prima di lasciare il campo alla certezza che gli scontri con la Cgil e l’opposizione siano destinati ad intensificarsi col finire dell’anno. A prescindere dal risultato di domenica e lunedì.

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