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Salvini, la telefonata di Meloni: «Accuse surreali, andiamo avanti». Scongiurato il conflitto con i magistrati

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Un processo “politico”, montato su accuse “assurde”. Giorgia Meloni viene raggiunta dalla sentenza di assoluzione di Matteo Salvini per il caso Open Arms mentre sta per sedersi alla cena del summit europeo a Saariselka, cento casette in legno in mezzo alle foreste artiche della Finlandia. Prende il telefono in mano. È il suo uno dei primi numeri a comparire sullo schermo del leader leghista, mentre nell’aula bunker di Palermo sono già partiti gli abbracci e le lacrime di Francesca Verdini. Tira un sospiro di sollievo la premier, esprime solidarietà via twitter e poi a tu per tu all’alleato con cui a volte si intende a fatica. Ma non su questo. Sui pm che «fanno politica con la toga», come ripetono in queste ore i suoi consiglieri a Palazzo Chigi, e «da questa vicenda escono malissimo». Con i suoi la linea è: la maggioranza è più compatta, si va avanti.

Meloni al Polo Nord: il vertice sui migranti, le renne e gli iglù con Ginevra. La premier al confine con la Russia di Putin

Scampato pericolo, ripetono nel cerchio magico della leader. Dove da mesi guardavano con crescente apprensione al verdetto di Palermo e già si preparavano al peggio. Un vicepremier e azionista di maggioranza condannato, in carica, al suo posto. Lo scontro con i giudici che sale di intensità. E poi l’incognita Salvini, la campagna anti-toghe che può varcare una linea rossa, la tela sull’asse Trump-Musk che può diventare un rumore assordante per la premier e il suo partito, attentissimi alla special relationship con il capo dei Repubblicani sull’uscio dello Studio Ovale. È andata diversamente ieri. Meloni fa vergare parole dure contro i giudici nella nota, parla di accuse «surreali». E a Salvini ribadisce la promessa scandita in pubblico, a caldo. «Andiamo avanti». Nella lotta contro l’immigrazione illegale, per cominciare, tornata chiodo fisso in queste settimane per la presidente del Consiglio. La tela con von der Leyen, ieri mattina, per salvare il patto sui riconoscimenti extraterritoriali tra Italia e Albania dalle picconate dei tribunali. Di nuovo i giudici. Del resto anche qui, tra i ghiacci artici, Meloni tratta di migranti, cerca di saldare un asse tra Nord e Sud Europa da riproporre nei mesi a venire nei consessi dove si danno le carte. A partire dal Consiglio europeo, dove la premier ha radunato ancora una volta giovedì mattina un formato ristretto di Stati membri per discutere di confini. Andiamo avanti, dice a Salvini ritrovando la voce e la tempra sfumate nei giorni scorsi a causa di una brutta influenza che l’ha costretta a letto per metà giornata. Andiamo avanti, vuol dire anche avanti sulle riforme della giustizia. Meloni lo ha gridato sul palco di Atreju, fra le ovazioni dei militanti di FdI in pettorina. Si apre l’anno della riforma di giudici e pm, la separazione delle carriere. Piaccia o no a giudici e pm. Viaggia spedita la legge che ha già messo su un piede di guerra opposizioni e quasi tutta la magistratura associata, seguita dallo sguardo vigile (e assai critico) del Quirinale. Da Palazzo Chigi la direttiva è già stata impartita: via libera in prima lettura, sprint per chiudere entro il 2026, eventuale referendum incluso, e far scattare la rivoluzione delle toghe prima del rinnovo del Consiglio superiore della magistratura (Csm) a inizio 2027.

LA ROAD MAP

Viaggia spedita, sì, ma pur sempre alleggerita della crociata salviniana (in salsa trumpiana) contro le toghe che con una condanna ieri sarebbe sicuramente salita di intensità complicando la tessitura in aula, con il Colle, con il ministero di Carlo Nordio. È tra i primi a brindare il Guardasigilli: «Onore a questi magistrati coraggiosi. Questo processo non sarebbe neanche dovuto iniziare». Segue l’affondo: «Grave è stata invece la decisione politica di autorizzare questo processo, in contrasto con la legge costituzionale che tutela la carica ministeriale». Si accodano tutti i ministri. Fra gli altri Matteo Piantedosi, all’epoca capo gabinetto del Viminale con Salvini: «Infinitamente felice, non si può mettere sotto processo la linea politica di un governo». Certo, non tutto è oro ciò che luccica. Per la premier si apre un’incognita chiamata Daniela Santanchè. Con Salvini condannato, al suo posto, un rinvio a giudizio della ministra del Turismo di Fratelli d’Italia difficilmente avrebbe comportato dimissioni automatiche. «In quel caso, tutti fermi» prevedeva qualche giorno fa un ministro di peso. Par condicio. Imputata per la presunta truffa allo Stato da oltre 126mila euro sulla cassa integrazione Covid per 13 dipendenti di Visibilia Editore e Concessionaria, la ministra ex berlusconiana attende la decisione sul rinvio a giudizio per marzo. E così un altro big del partito leader del centrodestra, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, rinviato a giudizio per rivelazione di segreto di ufficio nel caso Cospito. Senza lo “scudo Salvini”, si deciderà caso per caso? Chi è vicino a Meloni smorza e nega un filo diretto, «siamo garantisti, rispettiamo il lavoro dei giudici». Niente fughe in avanti. Nella nebbia di Saariselka, meno venti gradi, uno sbuffo si fa spazio nell’aria glaciale. Meloni può sospirare. La mannaia dei giudici sul governo, almeno per ora, è stata scampata.

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