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Stop al corteo anti-toghe, ma l’assedio non si ferma. “Deridono il Parlamento”

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Le voci, oggi, hanno intensità e volumi diversi. Il messaggio che arriva dal governo e da Fratelli d’Italia torna un millimetro dietro la linea rossa dello scontro finale. Giorgia Meloni e i suoi hanno deciso di non scendere in piazza per manifestare contro i giudici. L’ipotesi paventata in un sondaggio inviata agli iscritti nei giorni scorsi viene derubricata a «pazzia» dal deputato di FdI Giovanni Donzelli, a capo dell’organizzazione del partito.

Non sono cambiate, invece, di molto le recriminazioni nei confronti delle toghe. «Una parte della magistratura ci rema contro» è il mantra meno impetuoso e più circostanziato che si intercetta facilmente all’uscita della direzione nazionale del partito tenuta ieri. Una calma quasi ostentata tra le mura sicure del centro congressi di via Alibert, a due passi da piazza di Spagna, che a riunione terminata cede però il passo all’ormai consueto appuntamento con un atto d’accusa.

Stavolta il caso Almasri e il procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi non c’entrano. Né ha qualcosa a che fare l’affaire Daniela Santanchè, sfilata ieri a testa alta tra gli sguardi del partito che sta cercando di farla fuori. Il mirino è puntato sui 5 giudici della Corte d’Appello che hanno disposto il rientro in Italia - già compiuto ieri, a Bari - dei 43 migranti che si trovavano in Albania.

«Provengono tutti dalla Sezione specializzata del Tribunale di Roma» è l’affondo congiunto con cui i capigruppo di FdI Galeazzo Bignami e Lucio Malan indicano come vanificata la scelta di «governo e Parlamento» di trasferire per decreto la competenza alla Corte di Appello proprio «per sottrarla alle Sezioni specializzate del Tribunale».

Una «presa in giro» è la denuncia. «Si può essere d'accordo o meno con una legge dello Stato, ma in democrazia la legge si rispetta e si applica», invece, la tesi. Principio su cui Bignami e Malan pungono anche l’opposizione, teorizzando la necessità di un loro sdegno. E infatti FdI starebbe ragionando in queste ore su un provvedimento ad hoc per evitare che i giudici delle sezioni dei tribunali passino alle Corti d’Appello. Il canovaccio è quello già seguito negli ultimi giorni.

Eppure i resoconti di molti degli interventi di ieri potevano far presupporre qualcosa di diverso. «Il problema sono i giudici politicizzati, non i giudici. Questo è il senso della discussione che stiamo facendo» spiega, ad esempio, il deputato Federico Mollicone.

Idem per la decisione, maturata già nei giorni scorsi, di non scendere in piazza per una grande manifestazione nazionale a Roma. Una mossa alla Silvio Berlusconi che nel 2013 portò in corteo tre ministri, compreso il vicepremier e titolare dell’Interno del governo di larghe intese Angelino Alfano. «Lo abbiamo valutato seriamente» racconta una fonte ai vertici del partito di via della Scrofa.

«Non ci sarà alcuna manifestazione di piazza, nessun corteo contro la magistratura. Figuriamoci, saremmo dei pazzi», assicura a La Stampa Donzelli. Sa bene che una manifestazione del genere provocherebbe una frattura tra poteri e non troverebbe di certo l’approvazione del Quirinale. Tra propaganda e fatti, per Sergio Mattarella, passa tutta la differenza del mondo. «Stiamo facendo una riforma per i giudici, non contro», precisa infatti Donzelli.

Drammatizzare oltre, non è un’opzione. Ora è più utile modulare l’intensità, creando un “movimento” della base che possa essere capitalizzato in vista del referendum per la separazione delle carriere oppure qualora lo scontro dovesse sfuggire di mano. Prove generali di consenso. Tant’è che non è escluso che il partito, sull’onda di quella organizzata a favore delle forze dell’ordine in questo fine settimana, organizzi una raccolta firme di solidarietà a sostegno della premier e dei ministri indagati, con tanto di gazebo nelle principali piazze italiane.

È il segno che si vuole modulare l’impeto dello scontro. La magistratura è ancora vissuta come una minaccia, ma il problema viene incanalato in un’altra direzione, anche attraverso gli interventi dal palco. Quello di Guido Crosetto, ad esempio. «In questo Paese – dice prendendo un po’ alla larga il tema – c’è un problema di democrazia decidente. Trump, nel tempo intercorso tra la cerimonia di insediamento e il successivo ricevimento, ha firmato decreti per far uscire gli Stati Uniti dall’Oms e dai patti di Parigi. Qui una cosa del genere sarebbe impossibile».

E permettere al governo di decidere qualcosa senza che altri poteri si frappongano, in una conflittualità tutta politica, «è ormai una questione di competitività del sistema», sottolinea il ministro della Difesa. Un sistema che per Crosetto sta crollando anche a causa dei colpi dei pm. Dal palco sciorina infatti la vicenda del senatore dem Stefano Esposito, dal 2015 al 2018 intercettato per 500 volte – senza la preventiva autorizzazione del Parlamento – su richiesta del pubblico ministero di Torino Gianfranco Colace.

La posizione di Esposito è stata poi archiviata, ricorda il ministro chiudendo l’intervento tra gli applausi, ma lo stesso pm pochi giorni fa «sventolava la Costituzione per protestare contro la riforma della giustizia».

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