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Tasse, evasione da 83 miliardi: vale i costi della scuola e due terzi della spesa sanitaria

6 mesi fa 5
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ROMA. Ottantatré miliardi di euro. Con ottantatré miliardi di euro l’Italia potrebbe onorare tutti gli interessi sull’enorme montagna del debito pubblico. Ottantatré miliardi di euro sono l’equivalente di due terzi della spesa sanitaria, molto di più di quel che lo Stato si può permettere di spendere per la scuola pubblica - circa cinquanta miliardi - la metà di quel che i contribuenti hanno investito per i costosissimi bonus edilizi. Con ottantatré miliardi si può pagare un quarto dell’intera spesa per assistenza e pensioni: 322 miliardi l’anno, con la Grecia la più costosa dell’Unione a Ventisette. Per capire le dimensioni del peggior vizio italico occorre osservare la tabellina a pagina 5 della relazione «sull’economia non osservata e l’evasione fiscale e contributiva». Gli ultimi dati disponibili sono del 2021. In quell’anno gli italiani non hanno versato al fisco 73 miliardi di imposte, ai quali vanno aggiunti i contributi previdenziali non versati.

La buona notizia è che con il passare degli anni, grazie soprattutto alla tecnologia e ai controlli telematici, le cose migliorano. Al netto dei contributi locali - noi italiani evadiamo anche quelli - nel 2017 il totale delle imposte non pagate erano poco meno di novanta miliardi, per la precisione 89,2. Sono scese a 84,2 nel 2018, 80,3 nel 2019, 68,5 nel 2020, 66,5 nel 2021. Il totale delle somme evase è sceso sotto la soglia psicologica dei cento miliardi nell’anno della pandemia, e nonostante la forte ripresa dell’economia ha continuato a scendere. La cattiva notizia è che si tratta ancora di un fenomeno endemico, una delle voci costanti delle raccomandazioni della Commissione europea all’Italia.

Fino a metà degli anni duemila i governi di centrodestra non hanno avuto remore ad introdurre veri e propri condoni di massa, fiscali, edilizi, delle somme depositate illecitamente all’estero. L’abitudine alle sanatorie non è passata, ma i governi oggi agiscono con più cautela, limitando le possibilità di perdono fiscale. L’ultima «rottamazione» delle cartelle fiscali - oggi si chiamano così - l’ha varata il governo Meloni. Le precedenti le avevano decise quelli di Giuseppe Conte (il primo dei due), e poi Paolo Gentiloni e Matteo Renzi.

Ciascuno dei governi che si sono succeduti nell’ultimo decennio ha scelto una soluzione semantica all’ipocrisia dei condoni. Mario Monti permise «l’annullamento» dei debiti fino a mille euro. Enrico Letta varò una «definizione agevolata dei ruoli», Mario Draghi un limitato «stralcio delle cartelle», con scorno di Matteo Salvini, che delle sanatorie è da sempre un grande fan. Allora si decise di non perdonare più di cinquemila euro, tenuto conto dei redditi. Ma quando si presentò in conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri l’ex governatore della Banca centrale europea lo ammise con sincerità: «Sì, è un condono». Ma «permetterà all’amministrazione di perseguire la lotta all’evasione anche in modo più efficiente». Draghi non mentiva, ed è forse l’aspetto più odioso della faccenda: più aumenta la mole di somme non riscosse, più si accumula arretrato sulle scrivanie dell’Agenzia delle Entrate, complicando il lavoro di chi lo deve gestire.

L’ultimo aggiornamento del «carico residuo contabile» dice che mancano all’appello la bellezza di 1.200 miliardi di euro. Una volta esclusi deceduti, falliti e nullatenenti, restano 502,5 miliardi di «contribuenti già sottoposti ad azione cautelare od esecutiva». Quei cinquecento miliardi di euro - scriverlo per esteso fa più effetto - sono evasione accertata di chi è riuscito ad avere la meglio sullo Stato. I poteri dell’Agenzia delle Entrate negli anni sono aumentati, ma resta quasi impossibile accedere ai conti correnti degli italiani. Una norma che dovrebbe facilitare l’opera è stata introdotta anche nell’ultima Finanziaria, ma fin qui non attuata. Il governo Meloni sembra invece deciso a non far crescere ulteriormente la montagna dell’arretrato: di qui in poi, ciò che l’amministrazione non riuscirà ad incassare entro cinque anni, verrà sostanzialmente cancellato. Piaccia o no, è una soluzione. La storia ci racconta che non è nemmeno la prima volta. L’articolo 19 del decreto legislativo 112 del 1999 (a Palazzo Chigi c’era Massimo D’Alema) avrebbe dovuto permettere di non accumulare più di tre anni di arretrati: quella norma non fu mai attuata.

Non è ovvio dover constatare che le ragioni di tutto ciò affondano le radici in un Paese che (molto spesso) non offre servizi all’altezza dell’alta pressione fiscale (soprattutto sui redditi medio bassi dei lavoratori dipendenti) e un sistema di regole che dà il mal di testa a chiunque. Nonostante l’impegno del direttore dell’Agenzia Ernesto Maria Ruffini per aumentare il numero delle cartelle precompilate, solo in Italia milioni di contribuenti sono ancora costretti a rivolgersi a un commercialista o a un centro di assistenza fiscale per presentare la dichiarazione dei redditi. Negli anni in cui Equitalia era un ente autonomo dall’Agenzia delle Entrate, si parlò a lungo di «cartelle pazze», dei suicidi di imprenditori in difficoltà e inutilmente vessati. Maurizio Leo, colui al quale Giorgia Meloni ha affidato il compito di riformare il sistema, ricorda spesso che le sanzioni in Italia superano il cento per cento delle somme non pagate, mentre nella media europea non si supera il 60. Il fisco italiano altro non è che l’altra faccia del patto mai rispettato fra Stato e contribuente, e viceversa.

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