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Buone notizie per Giovanni Toti. L’altro giorno la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione di una vecchia inchiesta su Beppe Grillo. Era accusato, Grillo, di traffico di influenze illecite per avere esercitato pressioni su tre ministri del governo gialloverde di Giuseppe Conte con l’obiettivo di aiutare Vincenzo Onorato, l’armatore di Moby. Un soccorso a un vecchio amico in difficoltà, dopo che questi aveva però sborsato la bellezza di 240 mila euro, ufficialmente per alcuni banner pubblicitari sul blog del comico.
Al di là dell’esito giudiziario delle due vicende, le inchieste Toti e Grillo mostrano interessanti punti in comune. A cominciare dalla lettura delle carte. Nelle 600 pagine di Genova, abbiamo letto passaggi eticamente discutibili, per non dire censurabili. Come la famosa telefonata a bordo dello yacht di Spinelli. A parlare è Toti: «Io sono buttato in barca da Aldo, quando gliela portiamo ’sta proroga in comitato?». In ballo non c’è la gestione di una bocciofila di quartiere, ma la concessione del porto: per Spinelli un affare da decine di milioni di euro. Oppure l’intercettazione datata 2022, a ridosso delle elezioni. Toti si rivolge così all’imprenditore portuale: «Quando mi inviti in barca? Così parliamo un po’ che ora ci sono le elezioni». E avanti così.
Toti sbruffoneggia, ha toni arroganti, si sente intoccabile: il padrone della Liguria. Ma tant’è. Anche le intercettazioni di Grillo non aderiscono esattamente a quel concetto di «casa di vetro» tanto caro al Movimento onestà-onestà degli inizi. Il 12 giugno 2019, Onorato chiede un favore per la sua società alle prese con una vicenda di sgravi fiscali Ue. Grillo gli scrive tranquillizzandolo: «Ho convinto Toninelli a occuparsi della questione a Bruxelles». E, a riprova, gli inoltra la risposta del ministro: «Eccoci Beppe... ciò che mi chiedi è avviato e fermo in Commissione europea».
Passa un mese e mezzo, e stavolta la telefonata intercettata parte dal cellulare di Onorato. Il dicastero dei Trasporti ha sospeso alcuni pagamenti alla Cin del gruppo Moby: «lo sono senza soldi, mi stanno strozzando…». La risposta di Grillo, si legge nelle carte, è «immediata»: «Vincenzo, ho attivato Luigi (Di Maio, ndr) e Toninelli. Vediamo cosa dicono». Non basta? Andiamo a ottobre 2019. Il 24, Onorato scrive di nuovo a Grillo: «Comandante, Unicredit mi sta impedendo la vendita di due navi. Si può fare qualcosa? » . E il comandante Grillo, agli ordini: «Contatto Patuanelli! ».
Toti è accusato, nella sua veste di pubblico ufficiale, di corruzione; a Grillo veniva contestato il traffico illecito di influenze. Ma il punto non è il titolo del reato. Il punto è stabilire se questi comportamenti, certe parole, una disinvoltura così ostentata e assai poco istituzionale nei rapporti che un politico deve necessariamente tenere con l’esterno, costituiscano un fatto penalmente rilevante. La Procura di Milano, che su Grillo ha indagato per anni, alla fine ha dovuto arrendersi. Legge alla mano, i magistrati chiedono di chiuderla qui. È vero che Grillo s’è dato da fare, ha brigato con i suoi (suoi?) ministri, si è volentieri esposto per aiutare l’amico-benefattore. Ma il traffico di influenze è penalmente rilevante solo se funzionale al compimento di reati successivi o se è commesso da un pubblico ufficiale. Bene: poiché Grillo pubblico ufficiale non era, e i ministri non hanno commesso abuso o corruzione, la vicenda finirà molto probabilmente in nulla.
A differenza di Grillo, Toti è pubblico ufficiale, ruolo che continua a rivestire anche adesso che si trova agli arresti domiciliari. Come se non bastasse, l’inchiesta che lo coinvolge non è che agli inizi: può succedere di tutto. Ma, alla luce della richiesta di archiviazione avanzata per Grillo, una considerazione forse la possiamo fare. Come il fondatore dei 5 Stelle, anche il presidente ligure si è concesso margini di manovra estremi, che lo hanno spinto lungo una linea dai confini eticamente disprezzabili ma incerti per il nostro diritto.
Da una parte c’è la politica (Toti l’ha sempre rivendicato, anche se proprio ieri ha riconosciuto che cambierebbe modalità di finanziamento della sua attività), dall’altra c’è l’illecito. Dentro questa difficoltà a trovare una definizione condivisa di che cosa stiamo parlando, resiste, incrollabile, il grande tabù dei soldi che servono a far funzionare la nostra malconcia democrazia. Tornare al finanziamento pubblico dei partiti? Nessuno ne parla. Molto più comodo lasciare che il popolo degli elettori (in fuga dalle urne) faccia come lo Stato nella canzone di De André su Poggioreale: «Si costerna, s’indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità».