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Vicky Piria, pilota e volto Sky della Formula 1: «Non giocavo con le Barbie. Un membro della squadra mi disse: questo sport non è da donne»

1 mese fa 4
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«Sono stata sempre un maschiaccio, diciamo. Non giocavo con le Barbie, amavo andare a cavallo. Poi, ho scoperto i go-kart». Aveva otto anni Vicky Piria, pilota automobilistica milanese, classe 1993, la prima volta che è scesa in pista. Nel 2009, adolescente, ha debuttato su una monoposto nella Formula Renault, poi è passata alla prima edizione della Formula Abarth, e così via, dalla Formula 3 fino a diventare l'unica italiana della W Series e oltre. Da quest'anno, è il volto femminile di Sky Sport per la Formula 1. Senza dimenticare, l'attività come testimonial di IWC, brand di orologi ritenuti "maschili". E sì che tutto è nato quasi per caso, quando una bambina ha scoperto il gioco della "velocità".

Come è nata la passione?
«Un giorno, mio padre ha portato me e mio fratello sui go-kart. Ho sentito subito la competizione, ma per gioco, volevo solo dare un po' di fastidio a mio fratello. In realtà, è stato un colpo di fulmine. Ricordo che la domenica portavo la colazione a letto a mio padre, sperando che mi accompagnasse alla pista di go-kart».

Sognava già di diventare pilota professionista?
«Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo: la pilota di Formula 1. Non ci credevo, però. Era una disciplina maschile, non c'erano esempi femminili. Ricordo un compagno di squadra che mi diceva: "Sei una femmina e questo non è uno sport da femmine"».

Come reagiva?
«Sapevo che quel mondo era maschile e lo accettavo. La mia strategia era non farne un problema e davvero non lo vedevo come tale. Nel tempo, ho imparato a comportarmi in modo che non lo diventasse».

Ossia?
«Sono estroversa, ho imparato a scherzare per togliere l'imbarazzo di una presenza femminile in ambito maschile, ma anche a non sorpassare il limite, dando troppa confidenza».

Tutti sforzi in più, che ai piloti uomini non sono richiesti.
«Sicuramente. Rispetto a quando ero piccola, passi avanti sono stati fatti. La mia generazione ha fatto da spartiacque, oggi ci sono più ragazze che intraprendono questa carriera. Avere esempi femminili è davvero importante. Ti porta a pensare che se c'è stata chi ce l'ha fatta, puoi farcela anche tu».

È stato difficile far capire la sua passione agli amici?
«Sono stata sempre brava a scindere i due mondi. È fondamentale tenere i piedi per terra. E la mia famiglia mi ha aiutato. Ho due fratelli, l'attenzione non poteva essere tutta sulle mie gare. Io mi facevo assorbire molto dallo sport. A 17 anni, il mio fidanzato mi disse: "Devi capire che non sei solo un culo sulla macchina"».

Non sarà stato facile spiegare una passione così forte ai suoi partner.
«Sono fidanzata da quattro anni e il mio ragazzo è il primo che mi abbia davvero sostenuta. Per una donna è complesso trovare un uomo che sia contento dei momenti nei quali brilla più di lui».

Mai messa in dubbio la carriera?
«Ci sono stati momenti nei quali mi sono chiesta: perché sto facendo tutto questo? Alcune fasi della vita di chi pratica uno sport a livello agonistico sono difficili. Si sacrifica molto e se non arrivano i risultati, si sente minata la sicurezza in sé».

Sente la responsabilità di essere l'unica nella W Series?
«Sì ma anche l'onore. È un vantaggio, perché se fossimo in tante, forse sarebbe stato più difficile avere talune occasioni. Ma è anche uno svantaggio. Quando andavo a parlare con gli sponsor del mio sogno della Formula 1, mi sentivo dire: "Perché, le donne possono correre?"».

Anche all'estero è così?
«No. Al mondiale femminile, eravamo diciotto, selezionate tra 120. Io ero l'unica italiana, le inglesi erano cinque. È lo specchio di come viene vissuto lo sport al femminile nelle diverse realtà».

La solidarietà femminile esiste nel suo lavoro?
«La rivalità è forte. Ci lamentiamo ma poi siamo le prime ad accoltellarci. Secondo me non esiste, non adesso, forse perché ci sono meno spazi per le donne».

Cosa manca ora per le donne nel mondo dei motori?
«Si parla tanto di dare spazio alle donne, ma molti lo fanno quasi per moda. È ora di crederci. Dobbiamo smettere di piangere e gridare le nostre richieste, lo abbiamo fatto, è ora di dimostrare quello che possiamo fare. Ciò che vorrei adesso non è trovare talenti per la Formula 1 ma far sì che le ragazze si sentano libere di vivere le loro passioni».

Non è ancora così?
«Molte mi scrivono sui social che mi seguono perché sono appassionate di motori ma alle amiche non interessano e i ragazzi non condividono».

È testimonial di un brand di orologi di impronta maschile, IWC, anche questo aiuta a cambiare la narrazione dello sport?
«Certo. Il brand non ha scelto lo stereotipo della modella ma una pilota. Si è allontanato da un preciso immaginario. Io mi sento a mio agio con orologi più maschili, dunque li indosso».

Dalla pista alla Tv. Anche raccontando lo sport, si è scontrata con pregiudizi?
«Il mondo dei motori è molto al maschile in tutti gli ambiti. Quando ho iniziato a parlare di Formula 1 in Tv, sui social mi sono arrivati anche tanti commenti in stile "Vai in cucina, che è meglio". Gli haters ci sono ma sono di più quelli che apprezzano. Sky ha avuto coraggio a mettere una donna a commentare la Formula 1. Anche questo è un esempio importante per le bambine».

Adesso, cosa le piacerebbe sperimentare?
«Da pilota, voglio continuare a fare le gare, ma senza grandi pressioni. La tv mi piace molto, amo trasmettere emozioni. Vorrei fare ancora di più. La Formula 1 non è solo la gara, ma un approccio alla vita».

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