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Cosmo: «Imitiamo gli stranieri, il nostro pop non osa. Sanremo? Mi sono autosabotato in partenza e mi ha deluso la qualità»

7 mesi fa 33
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«Oggi nel pop italiano non si rischia: si ha la sensazione di ascoltare sempre la stessa canzone. C’è un sistema consolidato di autori e produttori, gli stessi in ogni pezzo, che sta dominando», riflette Cosmo. Per fortuna, viene da dire, che ci sono quelli come lui. Marco Jacopo Bianchi, questo il vero nome del 42enne musicista di Ivrea (con un passato da professore di filosofia, come racconta nel docu-film Antipop, in streaming su Mubi, in cui a un certo punto rivela pure di aver pensato di lasciare la musica perché a 35 anni non era ancora riuscito a ingranare - fu proprio in quel momento che il singolo L’ultima festa lo rilanciò, nel 2016), è ormai da una decina di anni uno degli artisti più originali e anticonformisti della nuova scena cantautorale italiana. Sulle ali del cavallo bianco, appena uscito, è il suo quinto album di inediti: nelle undici canzoni che lo compongono - le presenterà con un tour nei club che partirà il 30 marzo da Firenze e arriverà a Roma il 23 e 24 aprile all’Atlantico - il cantautorato pop à la Battisti incontra il synth pop psichedelico. «La mia musica ha un linguaggio che non tutti capiscono. Questo perché per certi versi è un “atto masturbatorio”», dice lui, che rompe ancora una volta gli schemi. 

Che intende dire? 
«Rimango un musicista di estrazione underground con la passione per le cose più sperimentali: quelli come me ogni tanto rischiano di diventare personaggi che si masturbano con gli strumenti, che si autocompiacciono di sperimentare e fare cose che l’ascoltatore medio non capisce. Stavolta, però, ho provato a unire sperimentazione e pop. Masturbarmi, ma non troppo: far sì che la pratica non sia fine a sé stessa, ma provi a creare una piccola utopia musicale, un po’ come il cavallo bianco che dà il titolo al disco: è un animale da cavalcare per arrivare ai confini della libertà, della creatività, della fantasia». 

Fa tutto da solo? 
«No. Ho lavorato all’album insieme ad Alessio Natalizia, produttore e musicista di base a Londra e noto nei circuiti underground internazionali con lo pseudonimo Not Waving, con il quale collaborai già ai tempi della mia ex band, i Drink To Me. Per me è stata una cosa nuova, lavorare a un mio disco solista insieme a un altro musicista». 

Com’è nata l’esigenza di confrontarsi con qualcun altro, in studio?
«Dopo quattro album avevo paura di ripetermi, di non tirare fuori dal cappello niente di nuovo. Con Alessio sono riuscito a fare il disco che volevo: italiano, ma meno anarchico del precedente. Vicino alla tradizione, ma con una sensibilità più futuristica». 

Se dice “Italiano” e “tradizione”, la prima cosa che viene in mente è il Festival di Sanremo: per caso si era candidato? 
«Non seriamente». 

Che vuol dire? 
«Diciamo che mi sono autosabotato in partenza, più o meno (ride). Mi rendo conto che per un progetto come il mio è un po’ difficile riuscire a esprimersi in quel contesto lì. Comunque vedendolo, Sanremo, sono rimasto deluso dalla qualità. Si sono messi tutti a fare musica in cassa dritta. Io ho smesso».

Il ritornello di “Sulle ali del cavallo bianco” sembra una citazione del “volare” di “Nel blu, dipinto di blu” di Domenico Modugno: voluta?
«No: è una citazione che arriva dall’inconscio (ride). Io ci vedo anche un omaggio a Vola mio mini pony di Cristina D’Avena, sigla dell’omonimo cartone animato degli Anni ’80. Quanto a Modugno, mi piace l’idea di attingere alla tradizione pop del nostro paese. Un tempo in Italia ci si faceva più i fatti propri, non si seguivano le mode internazionali».

Oggi, invece? 
«Si pesca qualcosa che ha già sfondato all’estero. E si prova ad emularlo, a imitarlo. Questa cosa ci farà stare sempre dieci passi indietro rispetto agli altri. Negli Usa invece Beyoncé si può permettere di sganciare un pezzone country come Texas Hold ‘Em. E va comunque in classifica. Bisognerebbe fregarsene un po’ di più, provare a percorrere strade inedite. Magari dialogando di più con il passato».

Cosa si sarebbe messo a fare se avesse davvero lasciato la musica? 
«Il professore di filosofia. Era già deciso. Insegnavo già negli istituti professionali. Avrei provato a entrare nelle graduatorie per insegnare nei licei. Il successo de L’ultima festa spiazzò tutti. A settembre sarei dovuto tornare a scuola. Invece il tour proseguì senza sosta per mesi». 

Dopo cinque dischi, in che fase della carriera si trova? 
«Faccio quello che mi pare, senza lasciarmi angosciare dal successo: non mi interessa. Sotto questo aspetto, mi piace il fatto di non essere arrivato da nessuna parte. Sono arrivato da un altro punto di vista: sento un meraviglioso senso di pace interiore». 

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