Home SignIn/Join Blogs Forums Market Messages Contact Us

Dariya Derkach dall’Ucraina all’Italia: “L’atletica mi ha salvata”

6 ore fa 2
ARTICLE AD BOX

ROMA. Anni in pullman, in viaggio da una vita all’altra, da un comune all’altro, da un’angoscia all’altra, nel tentativo di uscire da una timidezza da paralisi. Dariya Derkach ci è riuscita con un salto triplo, fino alla finale olimpica di Parigi. Ora costruisce una nuova stagione e guarda la foto del giorno in cui è partita da Vinnycja, in Ucraina, per arrivare a Salerno. Ne parla e le salgono le lacrime agli occhi, ma poi stanno lì e la faccia si apre in un sorriso consapevole di ogni scelta, a iniziare dalla più importante: «Essere italiana».

Torniamo alla foto, anzi a prima. Che cosa ricorda degli otto anni in Ucraina?
«Ero una bimba felicissima, sempre in un campo di atletica, infanzia con i nonni: bici, scivoli, sci, qualunque discesa era un’avventura. Mio papà faceva decathlon, ha smesso presto e si è messo ad allenare mia madre, triplista e lunghista a buoni livelli solo che allora là c’era la Kravets, gente così, da record».

Quando finisce l’idillio?
«Dopo un infortunio mia madre parte per l’Italia, non vedeva prospettive. Per me era tutto bello, mi arrampicavo sugli alberi, i miei genitori captavano altro. Un’amica, ex ciclista, si era spostata vicino a Salerno, ha fatto da apripista per mamma. Io e papà l’abbiamo raggiunta due anni dopo».

Che cosa le hanno detto il giorno in cui è andata alla stazione dei bus?
«Mi vantavo con le amichette, “vado in Italia”. Il trauma è stato separarmi dai nonni e l’ho capito lì. Con nonna c’era un legame fortissimo, ricordo le parole di quel giorno, una strana frase sulle labbra a forma di rosa. Ci penso spesso. Dopo l’ho vista tre volte. In Ucraina sono rientrata in una sola occasione, a 18 anni. I nonni sono mancati entrambi l’anno scorso, ma io sono una militare, non posso andare in un Paese in guerra e non li ho salutati».

Come vede la guerra da qui?
«Mio zio al telefono non mi dice “il popolo vuole combattere”, ripete che la gente non ne può più. Ha mandato moglie e figli in Inghilterra e non li vede mai. Qui sentiamo racconti di eroismo, politica: lì rivogliono la quotidianità».

I suoi nonni sono morti per situazioni legate alla guerra?
«Si sono ammalati. Nonna diceva che in farmacia non le davano le medicine, riservate ai veterani. Non avrà fatto la differenza, però oggi in Ucraina si vive solo di guerra. Resta un tasto dolente, mi sento in colpa. Mio nonno ha avuto un ictus e farlo viaggiare sembrava insensato, quando mi sono attivata era tardi. Mi sono fatta mandare le foto dei funerali, morboso eppure era l’unico modo per dire addio».

Quante ore su quel primo pullman?
«Un paio di giorni: giro infinito fino in Germania, da lì un treno per Napoli e poi altri pullman».

Che cosa ha trovato quando è scesa?
«Entro in terza elementare senza sapere una parola in italiano, in quinta facevo le gare di grammatica. Mia madre usciva alla 4 del mattino, faceva due paesi a piedi per essere al lavoro all’apertura del bar e certe volte vedeva passare i cani randagi, camminava a testa bassa. Mio padre era muratore, fuori all’alba. Io ero incosciente, vivevo sui pullman. Li detesto. Per andare a scuola bus di linea eterno, con tutti i ragazzi più grandi e io piccina, straniera... Cercavo di sparire: mi sentivo presa in giro».

Era vero?
«Spesso sì. Mi nascondevo. Le offese le ho ricevute, però non le ho mai raccolte. Destavo curiosità. All’inizio stavamo in casa d’altri: so di aver incontrato persone meravigliose. E questo resta».

Lo sport ha aiutato?
«La socialità ha svoltato quando ai giochi studenteschi ho vinto tutte le gare. Sono passata dall’essere “l’ucraina” all’amica di tutti. Lezione che ho portato a casa».

I documenti quando sono arrivati?
«Dieci anni di residenza, più altri di burocrazia. Non ho fatto le giovanili, nonostante i risultati importanti. Ci stavo male. Ho ricevuto il passaporto all’aeroporto, alla partenza per i Mondiali di Mosca, nel 2013».

Finalmente la maglia azzurra.
«Me le ricordo tutte. Un brivido, un onore. Realizzi di fare qualcosa che va oltre te stessa, senti di rappresentare l’Italia e portare addosso un’identità. Quando mi chiedono “ti senti più italiana o ucraina?”, faccio fatica. Sono cresciuta con pizza e mozzarella, allo stesso tempo so di essere anche figlia di un’altra cultura».

È vietato sentire molteplici radici?
«No, ma vallo a spiegare sotto i commenti su Instagram. Non posso dirmi ucraina e non riesco mai a fare discorsi sul tema, si offendono tutti. Vorrei rivedere lo stadio dove si allenavano i miei, il fiume sotto casa di nonna. È una parte di me e se la rivendico c’è chi mi insulta».

Il ministro Salvini ha detto: «Sono stufo che qui entrino cani e porci». Come l’ha presa?
«La mia famiglia ha scelto questo Paese e l’ho fatto più volte anche io quando altri offrivano cittadinanze veloci. Abbiamo rispettato le leggi e aspettato, senza forzare. Do un contributo all’Italia. Ci provo».

Cosa direbbe al ministro?
«Mi fa persino strano definirmi immigrata, devo tornare indietro per rendermi conto. Gli direi che appena entrati, non da cani e porci, era una lotta costante e non c’era la macchina e non c’erano i vestiti carini e la nostra prima casa era un disastro, con il bagno oltre il terrazzo, un freddo esagerato. Certi viaggi meritano rispetto. L’agonismo nasce anche dalla voglia di migliorare».

Ci è riuscita.
«Appena entrata in aeronautica ero l’unica in famiglia con lo stipendio fisso ed era una tensione che accusavo e inevitabilmente mi portavo in pedana. Ho iniziato a fare la fisarmonica, dieta rigidissima fai da te, in amenorrea per cinque anni, da prima dei Giochi 2016 a Tokyo 2021. Il ciclo è tornato il mattino della qualificazione e io, che non ero più abituata, mi sentivo un elefante. Temo di aver pagato molto all’emotività, a ogni gara andata male mi ripetevo “questa maglia non me la merito”».

Allora la allenava suo padre.
«Da giovane è bello, quando abbiamo smesso era diventata un’agonia. Ho dovuto tagliare e mi ha fatto paura quel rapporto esclusivo, se qualcosa andava male litigavamo pure per come si appoggiava la tazzina. Stavo a Formia e ci sono rimasta: dieci anni fa era ancora la casa degli atleti. Adesso siamo pochissimi. Solo che mi sono spostata troppo da ragazza e non ne ho più voglia. Mi manca da matti non avere gli amici di sempre, altra cosa che direi al ministro: si sacrifica parecchio quando ci si reinventa».

Ora si sente realizzata?
«A 31 anni mi definirei matura. Agli Europei di Roma, a giugno, invece mi sono sentita zero: febbre, Covid, qualsiasi jella. Non ci credevo, non volevo nemmeno andarci ai Giochi».

Poi la finale a Parigi.
«Mi sono detta “basta autosabotarti”. Per l’ennesima volta non c’era il mio allenatore, Alessandro Nocera. Capita purtroppo spesso che non sia tra i convocati e spero di averlo al mio fianco in futuro. Faccio questa richiesta alla federazione. Non dovevo vincere le Olimpiadi, ma con lui sarei stata più serena e, magari, nelle 26 ore tra qualifica e finale non mi sarei prosciugata a furia di parlare da sola. Avrei avuto bisogno di una carezza».

Il suo tecnico gliela avrebbe data?
«No di certo, però dei punti di riferimento li avrei avuti».

Leggi tutto l articolo