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Quando lo scorso 2 settembre Gisèle Pelicot si è seduta sul banco dell’accusa del tribunale di Avignone per affrontare il processo contro l’ex marito Dominique e i 50 uomini che per quasi dieci anni l’avevano stuprata à son insu (a sua insaputa), era una minuta signora di 72 anni, indistinguibile, nonostante il deserto cresciutole dentro, da milioni di nonne come lei e dai suoi normalissimi violentatori.
Gisele Pelicot: "Non pentita di aver denunciato. Penso alle vittime di stupro di cui non sappiamo nulla"
In quattro mesi questa semplice dattilografa in pensione senza alcuna velleità politica ha preso in mano la sua vita spezzata e si è trasformata in una figura archetipa come un mito di Roland Barthes, l’icona femminista a cui venerdì, all’indomani del verdetto di colpevolezza per tutti gli imputati, il presidente francese Emmanuel Macron ha reso il tributo della Republique. Merci pour toutes le femmes.
«La metamorfosi è avvenuta nel momento in cui Gisèle Pelicot ha chiesto di aprire le porte dell’Aula per dare a tutte le vittime senza nome il coraggio di denunciare come stava facendo lei» racconta Marion Dubreuil, 36 anni, giornalista di radio RMC e disegnatrice incaricata dal ministero della Giustizia di ritrarre i protagonisti delle udienze giudiziarie interdette ai fotografici, una dei pochissimi ammessi full time al dibattimento di Avignone con i magistrati, i legali, la grande accusatrice e i suoi 51 carnefici più le famiglie.
Ha ascoltato tutto Dubreuil e tutto ha visto, i video degli oltre 200 abusi filmati e archiviati da Dominique Pelicot, gli occhi, le lacrime sincere e la rabbia, le spalle curve così come, a tratti, la postura arrogante di chi, nonostante i quasi 400 reporter internazionali ammassati nel tribunale per dare un volto al male, resta convinto che il sesso sia un’arma da predatori.
Muri e macerie. E costante, davanti a loro, il movimento rapido della matita sul foglio, gli acquarelli: «Il momento peggiore è stato l’inizio, quando la Corte ha convocato tutti insieme, 51 imputati contro una sola persona, faceva spavento. Non potevo tener fuori nessuno dallo schizzo, quelli con il sorriso nervoso, quelli a testa bassa, chi mi guardava con aria di sfida». Poi, un’udienza dopo l’altra, sedute durante le quali comparivano a gruppi di 7 o 8, ha imparato a conoscerli.
«In virtù del mio lavoro potevo avvicinarmi al box degli imputati quando volevo, non ho mai cercato alcuna interazione ma rispondevo al saluto. C’era chi mi metteva particolarmente in ansia, credo dipenda da quanto vedessi in loro - continua Dubreuil - Preferirei incontrare per strada Didier S. anziché Ahmed T., quello convinto di non essere uno stupratore perché se avesse “voluto stuprare una donna” ne avrebbe “scelta una giovane”. Ha detto proprio così, mentre ero accanto a lui, è stato disturbante, era come se fosse riferito a me...».
Testimonianze, allusioni, il costante tentativo di auto-assolversi: «Uno di loro ripeteva di essere andato a Mazan per il piacere della coppia e insisteva, nonostante il presidente della Corte gli obiettasse che la donna, drogata e incosciente, non provava alcun piacere». Le parole della difese contro i video dell’accusa, video inappellabili, come quello in cui Gisèle è così chiaramente addormentata che l’uomo su di lei deve spostarle di peso le gambe per penetrarla.
«Gisèle Pelicot è diventata un’icona perché è stata una vittima incontestabile» continua Dubreuil. Nelle immagini filmate c’è l’evidenza che è mancata per provare l’incesto, laddove Dominique è stato condannato per il possesso di foto della figlia Caroline, dormiente e con abbigliamento intimo non suo, ma non per violenza su di lei.
Caroline Darian, che nel 2022, due anni dopo l’inizio di questo incubo, ha scritto il memoir “Et j'ai cessé de t'appeler Papa”, è uno dei profili più tragici: «È la più arrabbiata, crede che gli investigatori abbiano trascurato il suo caso, che quando nel 2020 si sono trovati in mano quell’archivio visivo abbiano messo in secondo piano le sue foto tralasciando di sottoporla al test dei capelli che allora avrebbe potuto dire se era stata drogata come la madre. L’incesto è più difficile da provare. Ho visto piangere Gisèle tre volte, Caroline molte di più».
I video hanno fatto il caso, il processo di Mazan: «Li abbiamo guardati a rotazione con piccoli gruppi di imputati. Gisèle era in Aula, c’era per dire che ci autorizzava e che non si trattava di voyeurismo, ma non ha mai staccato gli occhi dal cellulare. Aveva già visto tutto quando la polizia aveva scoperto l’archivio nel telefono e nel pc dell’ex marito. Solo pochi imputati hanno sostenuto il girato, glaciali come se non li riguardasse, gli altri fissavano la punta delle scarpe. Impossibile negare lo stupro. Nella scena della fellatio si vede l’abusatore di turno che deve tenere un dito puntato nella guancia di Gisèle affinché la bocca rimanga aperta. Lei ha detto che si è sentita un sacco della spazzatura ed è così che l’abbiamo vista usata».
Sebbene sia ormai nota l’identità dei condannati, i media francesi continuano a indicare i nomi seguiti dall’iniziale del cognome, perchè, Gisèle è riuscita a far cambiare campo alla vergogna ma nel nuovo campo ci sono anche madri, mogli, figli.
Alcuni, come Cedric G., hanno chiesto scusa: «Sono stati pochi. La guardavano ammettendo la propria colpa, lei non ha mai mosso un muscolo, nessuna interazione. Gli altri niente, nessun pentimento. E poi c’è Dominique Pelicot, un manipolatore, un bugiardo, non il diavolo ma un uomo che per sua ammissione voleva dominare una donna libera, ho sempre cercato di non mettermi in condizione di relazionarmi con lui, quando il volto è insostenibile è meglio guardare lo schizzo».
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E Gisèle, chiosa Dubreouil, che, sottomessa a sua insaputa per dieci anni, esce libera: «All’inizio ero timida, non sapevo se rivolgerle la parola, le sedevo accanto in silenzio, la ritraevo, poi abbiamo preso a salutarci, come va? Credo che quando ha pianto non sia stato per la vergogna, quella l’aveva già resa politica, ma piuttosto per i suoi cinquant’anni con il marito, è stata la sua vita».