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David Lynch ci ha strappato alla stupidità del mondo adulto e ci ha scaraventato di nuovo nella magia dell’infanzia, che a volte è quella dei mostri e delle favole nere. Le favole custodiscono nel proprio cuore un insegnamento, non ha a che fare con la pedagogia ufficiale. C’è la scena – terribile e sublime – di Cuore selvaggio, in cui Bobby Peru (Willem Dafoe) insidia Lula Pace (Laura Dern), approfittando dell’assenza di Sailor Ripley (Nicholas Cage). Sailor e Lula sono amanti, stanno fuggendo insieme dopo che lui ha violato la libertà vigilata. Ha ucciso un uomo per legittima difesa.
Fuggono da inferni famigliari e personali (la madre di Lula, la malvagia Strega dell’Ovest, il film è anche una rivisitazione del Mago di Oz), e noi tifiamo per loro dall’inizio della storia. Solo che adesso Lula e Sailor sono in un momento complicato. Sono stanchi di fuggire, disorientati, si amano sempre moltissimo, ma l’amore passa con più difficoltà. Allora Bobby Peru, un criminale da strapazzo, un umanoide dall’aspetto fallico e osceno, ci prova con lei.
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Siamo nella stanza di un motel. Lula all’inizio risponde per le rime: «Fuori di qui!» Bobby Peru la abbranca con violenza, le stringe il collo, la tira a sé, le chiede: «Chiavami». Lula risponde: «Niente da fare!» Lui stringe più forte, ripete: «Di’ chiavami… chiavami…» Noi spettatori, annichiliti, speriamo che a questo punto, come nei brutti film, arrivino i rinforzi. Preghiamo che arrivi Sailor. La polizia. I gestori del motel. Che Lula si divincoli dalla stretta. Invece Lula a un certo punto cede (particolare sulla mano che, da stretta a pugno, si apre) e dice: «Chiavami», e sembra lo desideri davvero. A questo punto, in un terrificante colpo di scena nel colpo di scena, Bobby Peru (che forse è un’impersonificazione del fallo in quanto impotente) cambia del tutto registro. Lascia la ragazza. Sorride.
Dice: «Un giorno lo farò, tesoro, ma ora devo scappare!» Lei scoppia a piangere. Lui beffardo: «Canta! non piangere»”, ed esce dalla stanza, lasciandola nella vergogna e nell’umiliazione. Solo allora la ragazza implora il nome del suo amore («Sailor»), e sbatte per tre volte i tacchi delle sue scarpe rosse, come Dorothy nel Mago di Oz quando sussurra: «Nessun posto è bello come casa mia».
Su questa scena si è scritto già moltissimo. Oggi qualcuno potrebbe pensare che ci si annidi la glorificazione di uno stupro. Ma Lynch è su tutt’altre galassie. Sailor e Lula devono «tornare a casa», la casa in cui non sono mai stati, il compimento del loro amore. Ma per ritrovare la via, bisogna prima perdersi. È necessario che gli amanti abbiano la loro «ora buia», che arrivi un momento in cui non sono più in contatto, sono lontani, si tradiscono. (L’ora buia di Sailor arriva più tardi, verso la conclusione, quando, appena uscito di galera, davanti a Lula e al bambino che i due hanno avuto, ha la tentazione di fuggire, li abbandona, poi torna sui suoi passi, sale trionfalmente sul cofano della decappottabile da cui era fuggito, urla «Lula!» in modo liberatorio e le dedica finalmente Love Me Tender di Elvis).
Il Lupo di Cappuccetto Rosso. La Matrigna di Biancaneve. Hansel e Gretel nella casa di marzapane. David Lynch è stato uno dei pochi grandi artisti del secondo Novecento che ha avuto il coraggio di andare al di là. Oltre cosa, di preciso? Oltre la rappresentazione. Oltre la verosimiglianza. Oltre il mimetismo. Oltre il «romanzo sociale» e soprattutto oltre quello «psicologico» e «biografico».
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O meglio, tutta la psicologia, il sociale, il plot (e il pop), sono gli ostacoli, interiori ed esteriori, che i protagonisti dei suoi film (e noi con loro) devono superare, la paccottiglia da digerire (i film di Lynch come limpia, cerimonie e rituali di spossessamento), o meglio ancora da vomitare, evacuare, le incrostazioni da cui liberarsi per accedere al fiume primigenio dove scorrono le forze assolute. Il Grande. Il Piccolo. L’Oscuro. Il Luminoso. Il Male. Il Bene. E l’Amore, quello del XXXIII canto del Paradiso dantesco in cui, da oggi, risplende anche un ragazzo di Missoula.