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Ma il vero obiettivo è colpire i magistrati

3 ore fa 1
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La riforma della «separazione delle carriere» tra Pm e giudici sembra arrivata all’ultimo miglio (per altro ancora piuttosto lungo), grazie alla tenace ossessione di gran parte degli avvocati e all’irriducibile dedizione alla causa dei politici di centro-destra.

Tra questi primeggia il ministro Nordio, sempre pronto a rivendicare per le sue idee un marchio Doc, perché lui «sa» in quanto vecchio pubblico ministero. «Sa» e garantisce, chiedendo un atto di fede, che non si avranno quelle ricadute negative sull’indipendenza del Pm che molti invece - a partire dal Consiglio superiore della magistratura - ritengono inevitabili. Mentre non a caso la separazione delle carriere fra Pm e giudici era nel programma di Licio Gelli e Silvio Berlusconi.

Rispetto alle altre democrazie europee il nostro Paese costituisce un «caso» per il concorso di alcuni specifici fattori: la resilienza della corruzione, capace di sopravvivere e riemergere anche dopo durissimi colpi (di qui la formula «corruzione sistemica»); la storica collusione con la mafia di pezzi consistenti della politica e del mondo degli affari; la pretesa, da parte di molti politici, di sottrarsi alla giustizia comune in forza del consenso ricevuto (nel momento stesso in cui la responsabilità politica e quella morale sono diventate ferri vecchi da relegare in soffitta); la sistematica delegittimazione dei magistrati che si ostinano a voler applicare la legge in maniera uguale per tutti, compresi i ricchi, i potenti e i politici.

È in questo quadro che va inserito il dibattito sulla «separazione delle carriere» fra Pm e giudici. Così si potrà capire che nel nostro Paese essa non è altro che il culmine della strategia di mortificazione della magistratura in atto da anni: perché il libero esercizio della giurisdizione sia alla fine sterilizzato subordinando il Pm al potere esecutivo, felice di intervenire soprattutto quando si tratta di imputati «eccellenti» che impunità van cercando.

Vi è chi sostiene che Falcone fosse a favore della separazione delle carriere: tra questi Marcello Sorgi su La Stampa del 17/01/25. Per parte mia (pur rispettando - ci mancherebbe - l’opinione di Sorgi) mi permetto di dissentire nella misura che risulta da un mio articolo, sempre su questo giornale, in data 05/11/24; nel quale (al di là della esegesi delle parole di Falcone che molti ritengono di dover riferire alla separazione delle funzioni e non delle carriere) ricordavo «il fatto decisivo che egli parlava in un’epoca stellarmene diversa da oggi».

Chi vuole la separazione delle carriere fa leva soprattutto sul rapporto di «colleganza» fra Pm e giudici comporterebbe uno squilibrio fra accusa e difesa nel processo. Ma al di là della propaganda illusoria, ragionando sulla situazione di fatto non è difficile vedere che lo squilibrio ha poco o nulla a che fare con la separazione delle carriere. Sono infatti i meccanismi di concreto funzionamento del processo che incidono sulla parità tra accusa e difesa. Mentre ruoli e figure professionali restano diversi al di là dei collegamenti derivanti da una carriera comune e dagli stessi rapporti individuali: un controllore resta controllore e un giudice resta giudice anche se prende un caffè col Pm.

Qui vorrei concentrarmi su un particolare aspetto del problema, utile per poterne scorgere in filigrana la reale portata. Separare le carriere di Pm e giudici comporta - in concreto - uno sdoppiamento dei rispettivi percorsi professionali. Quindi: 2 concorsi di assunzione; 2 Csm; 2 regolamenti per nomina dei dirigenti, trasferimenti etc. Ora, volendo seguire criteri di stretto rigore, si dovrebbe imboccare - per coerenza - la strada che porta a rescindere anche i rapporti fra i giudici delle indagini preliminari e i giudici di primo grado, fa questi e i giudici d’Appello e poi di Cassazione. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla «colleganza» fra Pm e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo. In pratica avremmo non 2 concorsi e 2 Csm, ma 5 concorsi e 5 Csm.

Ma è una strada senza via d’uscita e nessuno può seriamente pensare di proporla e men che mai di sostenerla. Tuttavia essa consente - in linea di principio – un’osservazione importante : limitare la separazione a un unico segmento della complessiva linea di «colleganza», equivale ad ammettere che la riforma non è coerente con le sue premesse teoriche, il che conferma quanto postulato all’inizio: e cioè che la separazione non è un problema di «giusto processo» ma rientra nella strategia di sterilizzazione del Pm che voglia essere «troppo» indipendente.

In ogni caso, spacciare la separazione come riforma della giustizia è come il gioco delle tre carte: perché è solo fuffa (chiacchera senza fondamento) tutto ciò che non incide sul problema dei problemi, vale a dire la vergognosa interminabile durata dei processi: offrendo finalmente al cittadino, che ne ha diritto, un servizio giustizia degno di questo nome, invece che – come oggi accade – un miscuglio di norme mal assortite che troppo spesso si risolve nell’insopportabile scherno di una denegata giustizia.

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