ARTICLE AD BOX
Sta collassando come nell’implosione di una serie di palazzi, la trattativa tra Israele ed Hamas per tregua e liberazione degli ostaggi. E uno dei primi palazzi a crollare è quello della fiducia americana. Secondo quanto ha riferito Axios, per ordine del presidente Joe Biden, Washington avrebbe bloccato la consegna di un carico di munizioni che era previsto per la settimana scorsa. È la prima volta che accade dal 7 ottobre. Il sito americano di notizie riporta la preoccupazione di funzionari governativi israeliani circa questo blocco, mentre Ynet, media televisivo e informativo israeliano, riferisce indiscrezioni di altri esponenti dell’amministrazione di Gerusalemme secondo i quali si tratterebbe di un semplice ritardo, smentendo una decisione politica (che tra l’altro Washington non ha voluto commentare) e ribadendo che il flusso di consegne è continuo.
Americani che, per evitare il collasso totale, hanno inviato a Doha d’urgenza un pezzo da novanta. Il capo della Cia, William Burns, è volato dal premier qatarino Al-Thani per tentare di continuare le pressioni su Hamas e Israele affinché si arrivi all’accettazione di un accordo.
Che sembra sempre più lontano. La delegazione di Hamas ha lasciato in serata il Cairo, dove ha consegnato la sua risposta. Israele non ha mai inviato i suoi uomini in Egitto. Lo avrebbe fatto, ha detto il Paese ebraico, se avesse visto segnali positivi. Che non ci sono stati. Tanto da spingere il ministro della Difesa Yoav Galant ad annunciare che l’operazione di Rafah sarebbe partita nel futuro più prossimo.
Lasciando il Cairo per Doha, per consultazioni, la delegazione di Hamas ha detto che Israele si è concentrato esclusivamente sugli ostaggi e ha ignorato le sue richieste. Un impegno ribadito anche dal presidente Herzog che, parlando nella ricorrenza del Giorno della Memoria per le vittime dell’Olocausto, a Gerusalemme, ricordando che si è in guerra da oltre sei mesi, ha detto che «faccio appello di cuore alle famiglie degli ostaggi, e grido, prego, spero e mi impegno a nome dell’intera nazione: non ci fermeremo e non staremo in silenzio finché i nostri figli e le nostre figlie non torneranno a casa».
Dopotutto, Netanyahu era stato chiaro: Israele non accetterà di ritirare le truppe da Gaza in prima battuta. Anche perché teme che succeda come alla fine di novembre, quando Hamas non rispettò i termini della tregua, bloccando la liberazione degli ostaggi e ricominciando a lanciare razzi verso il Paese ebraico. «Non siamo pronti ad accettare una situazione in cui i battaglioni di Hamas escono dai loro bunker, riprendono il controllo di Gaza, ricostruiscono le loro infrastrutture militari e tornano a minacciare i cittadini di Israele nelle comunità circostanti, nelle città del sud, in tutte le parti del Paese», ha detto il premier in un video, mentre in serata ha detto che «Hamas è spinta dagli stessi obiettivi dei nazisti». «Israele non accetterà le richieste di Hamas, che significano la resa, e continuerà a combattere finché tutti i suoi obiettivi non saranno raggiunti».
La piazza continua a pressare il premier e il suo gabinetto affinché si accetti un accordo ad ogni costo, cosa che i vertici israeliani non sembrano disposti a fare. Anche perché la guerra continua. Hamas ha lanciato da Rafah, nei pressi del valico verso l’Egitto e a 300 metri dal campo profughi, una decina di razzi verso l’area dell’altro valico, Kerem Shalom (che è stato di conseguenza chiuso), dal quale entrano gli aiuti alla popolazione. Tre i soldati morti e altri 9 feriti. Un’altra sessantina di razzi sono stati lanciati da Hezbollah, dal sud del Libano, verso il nord di Israele, in particolare contro Kiryat Shmona. Di contro, i jet israeliani hanno colpito postazioni del gruppo sciita nel Paese dei cedri a Markaba, Taybe, Kafr Kila, Odaisseh e Mays al-Jabal.
Ieri il governo di Gerusalemme ha deciso la chiusura delle attività di Al Jazeera nel Paese, a seguito della legge approvata ad aprile. Per l’esecutivo, come ha detto il ministro delle Comunicazioni, Shlomo Karhi, presentatore della legge, Al Jazeera è «una macchina che nuoce alla sicurezza di Israele». La polizia ha fatto irruzione negli uffici del canale televisivo a Gerusalemme e ne ha confiscato le attrezzature, provvedendo poi anche a interromperne il segnale via cavo nel Paese. «Media liberi e indipendenti sono essenziali per garantire trasparenza e responsabilità. La libertà di espressione è un diritto umano fondamentale. Esortiamo il governo a revocare il divieto», ha scritto su X l'Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani. L'Associazione della Stampa Estera in Israele, Cisgiordania e Gaza, ha condannato la decisione, parlando di «giornata buia per i media e per la democrazia e motivo di preoccupazione per i sostenitori della libertà di stampa».