Il partito della nazione “eterno ritorno” della politica italiana. E un’idea che, da qualche tempo a questa parte, rappresenta una magnifica ossessione e l’autentico oggetto del desiderio dei leader nostrani. Da ultima a invocare questo paradigma – condendolo con il consueto (e un po’ esoterico) richiamo tolkieniano che va per la maggiore da quelle parti – è stata Arianna Meloni, coordinatrice della segreteria di FdI, da lei indicato in direzione giustappunto come l’odierno «grande partito della nazione». E, dunque, ci risiamo con l’evocazione di quella che, declinata in salsa nazionale, è la formula politologica del «partito pigliatutto» (catch-all party), elaborata dallo studioso tedesco Otto Kirchheimer (1905-1965) con particolare riferimento proprio ai casi dell’Italia e di quella Germania da cui fu costretto a fuggire negli Usa dopo l’avvento del nazismo. Con gli anni Sessanta e la crisi dei “format” partitici otto-novecenteschi (di classe o confessionale, e di massa), entrava in scena il catch-all party. Così, nel paesaggio politico nazionale, dove il Pci non poteva andare al governo per le note ragioni ideologiche e internazionali, a incarnarlo è proprio la Democrazia cristiana, formazione interclassista e che, nel decennio seguente, si fa anche cartel party e «partito-Stato» presente a ogni livello dei sistemi di potere, da quello nazionale a quelli locali. Ed è, infatti, proprio la Balena bianca (non ce ne voglia Marco Follini, protagonista e acuto osservatore di quella storia) variamente riverniciata – di azzurro, verde, rosa o giallo –, a offrire il calco originale di tutti i tentativi recenti di dare vita ad altrettanti partiti della nazione: Fi, la Lega salviniana, il Pd renziano, il Movimento 5 Stelle della coppia Grillo-Casaleggio.
Nella Seconda Repubblica questa tipologia di organizzazione si è sposata col modello di quel partito personale di cui l’Italia, dal berlusconismo in avanti, è divenuta un laboratorio continentale (come pure di quel software neopopulista che a esso spesso si accompagna). A differenza di Forza Italia, gli esempi successivi si sono rivelati meno durevoli e molto più soggetti alla condizione (o “maledizione”) della «leadership intermittente», con il partito che si gonfia a rotta di collo di consensi elettorali ma poi perde colpi, arrivando ad assomigliare a una fisarmonica. Questo poiché la strategia comunicativa (un pilastro imprescindibile) si indebolisce, la leadership del capo-celebrity si appanna e, nel frattempo, il partito non è riuscito a consolidare un “blocco sociale” vasto a cui fornire rappresentanza. E anche perché, come ci insegnerebbe il Machiavelli, la troppa gloria e l’eccesso di fortuna – che, in verità, restano sempre momentanee – finiscono per obnubilare il novello “Principe”. Ed è questa – insieme alla propensione a vedere complotti in ogni dove – la marcata preoccupazione di Giorgia Meloni, desiderosa di stoccare i voti e tesaurizzare il gradimento nel timore di finire in prospettiva risucchiata anch’essa dalla parabola della leadership intermittente. Pertanto, cerca di blindarsi a colpi di “cerchietto – viste le dimensioni assai ristrette – magico” basato su una richiesta di fedeltà talmente assoluta da prevedere quale criterio di fondo la consanguineità, per sfociare così in un familismo che, nei prati dell’alleata tecnodestra americana, è praticamente già diventato “amorale”; ed è tutt’altro che un paradosso, dal momento che il premoderno (il potere chiusissimo in stile Antico regime) e il postmoderno (i circoli-network di Big Tech, che hanno nominato proconsole italiano l’ex nerd ribattezzato da Dagospia «Il troppo Stroppa») si tengono.
Proprio alla luce di questo scenario, a proposito di quanto documentava il sondaggio di ieri di Alessandra Ghisleri, la sinistra-sinistra rischia di fare testimonianza, mentre avrebbe l’esigenza di presentarsi almeno come sinistracentro, se non di tornare a essere compiutamente un centrosinistra. E avrebbe bisogno, sebbene in vari settori del suo elettorato prevalga il virus della divisione e della purezza identitaria – che pare inestirpabile come l’influenza di questa stagione –, dell’unità di tutti i progressisti, centristi e riformisti compresi. Altro che «marciare divisi per colpire uniti», come ha denunciato anche Arturo Parisi, che del tema se ne intende. Procedendo frammentato il sinistra-centro (col trattino) finisce per «colpire a vanvera». O per non colpire affatto, condannandosi alla sconfitta in un caso come nell’altro.