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Se il Paese non smette di guardare al passato

5 ore fa 1
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Siamo un paese di santi, poeti, navigatori, come disse la buonanima. E, ultimamente, anche di commemoratori. Il discorso pubblico è piuttosto incline a rivolgere la testa al passato. E anche la buonanima, dalla mascella volitiva, è un imperituro tema su cui discettare, compresa la versione cinematografica di M, romanzo di Antonio Scurati: è troppo caricaturale e manca di una tragica gravitas, oppure no?

Di convegni sull’intelligenza artificiale se fanno pochi e sui satelliti – di Musk e non – ancora meno. Trump minaccia di invadere la Groenlandia. Ma, mentre abbiamo appena finito di celebrare il trentennale della svolta di Fiuggi, il lavacro che purificò gli eredi del Msi, ecco il trentennale dell’Ulivo, mito vittorioso della sinistra di governo nella Seconda Repubblica. Anche perché poi non ha vinto più. Di Bettino Craxi si è commemorato il quarto di secolo dalla scomparsa ed è stato riproposto “Hammamet”, il film di Gianni Amelio in prima serata su Rai Uno. Mentre, per il trentennale della morte, è uscito quello su Enrico Berlinguer, di cui tre anni fa si è celebrato il centenario dei suoi natali. Su De Gasperi c’è appena stato il settantesimo della nascita e su Giacomo Matteotti il centenario del suo brutale assassinio. Prepariamoci, anche se è molto di nicchia, al mezzo secolo dalla scomparsa di Pasolini. E all’ottantesimo della Liberazione con le decennali polemiche, eternamente uguali a se stesse, sull’assenza di una memoria condivisa e il derby tra i reticenti e i professionisti dell’antifascismo, giusto il tempo di un talk e di qualche uscita sui giornali attorno al 25 aprile, che festa di tutti non lo sarà mai.

La verità è che siamo infaticabili commemoratori sì, però irriducibilmente presentisti. Delle tre dimensioni del tempo – Heidegger avrebbe parlato delle tre estasi “passato, presente e futuro” – quella a cui siamo incatenati è il presente. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Nell’eterno presente, il passato è svuotato di senso, non è un luogo per fare i conti con la storia e comprendere il tempo che viene. Alla Benedetto Croce, per intenderci: ogni storia è storia contemporanea. Al massimo è memoria di chi c’era, senza appigli per l’oggi e per il domani.

</CW>Si celebra molto, ma è come mostrare una foto nel salotto: chi c’era pensa, con un po’ di nostalgia, quanto stava bene allora. Un “come eravamo”, buono per cultori della materia, sempre meno, e protagonisti canuti che resistono all’uscita di scena, in un paese, esso stesso, molto brizzolato. Qualche intervista e via. Chi non è brizzolato, cambia canale (e talvolta pure paese). Del resto, come può essere interessato se si parla di robe del secolo scorso, sconnesse da quel che accade: Fiuggi mica è stata l’occasione, a destra, per farsi due domande sull’oggi, così come Berlinguer è un santino buono per essere stampato sulle tessere, mica per fare i conti con la “questione morale” di capibastone al Sud. Vale anche per Craxi e il “riformismo”, altra parola depauperata di senso; per l’Ulivo che pare una seduta spiritica agli occhi di è nato quando Prodi cadde in Senato e vota quest’anno per prima volta; per i cattolici e il loro ruolo, tema che, attualizzata sugli interrogativi etici di oggi e non dei tempi di Don Camillo, sarebbe pure interessante.

<CW-15>In fondo, la celebrazione è finzione conservativa. Da un lato il passato, trasformato in un ferro vecchio per l’oggi, al massimo strumento (autoreferenziale) di contesa alla bisogna. Dall’altro il presente senz’anima. Risultato: c’è una parola che manca, nel discorso pubblico. Che è la più importante: “futuro”. Manca proprio perché siamo immersi dentro un presentismo in cui la dimensione prevalente è il qui e ora, il potere come gestione e la velocità come mito sostitutivo della profondità e del dubbio. Tutto si consuma nello spazio di un tweet e di una dichiarazione che ecciti gli eserciti di follower. Nulla si sedimenta. Ma una democrazia muore se si riduce solo a pagine Instagram e teche, senza grandi racconti che facciano camminare oltre le une e le altre. Appunto, nel futuro.

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