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Un cauto ottimismo per un accordo tra Israele e Hamas, che sembra sempre più vicino, si contrappone alla sorpresa di Pechino per l'inaspettata caduta del regime di Assad in Siria.
La caduta di Damasco ha colto di sorpresa non solo la Cina ma l’intera comunità internazionale. La rapidità degli eventi ha evidenziato la fragilità del regime di Bashar al-Assad, incapace di resistere all’offensiva dei ribelli che hanno preso la capitale in soli dieci giorni. Tuttavia, questo esito è il frutto di 50 anni di corruzione e repressione del regime siriano, e di una recente debolezza dei suoi alleati Iran, Russia ed Hezbollah in Libano.
Pechino viene ascritta nelle lista dei perdenti con Mosca e Teheran, a seguito della vittoria delle milizie islamiste filo turche di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) ed una simile narrativa è legata al deterioramento dei rapporti diplomatici con Israele a seguito della posizione pro-palestinese assunta da Pechino.
La lettura del ruolo della Cina per il futuro delle Siria, nei rapporti con Israele e soprattutto la massiccia presenza economica cinese nel Medio Oriente meritano una interpretazione maggiormente sensibile alle dinamiche locali ed alle aspettative che anche attori come HTS nutrono nei confronti dei capitali di investimento cinesi.
Le ambizioni della Cina nel Medio Oriente si basano principalmente su investimenti economici e partnership strategiche, piuttosto che su interventi militari ove Pechino non ha interesse e soprattutto capacità di proiezione.
Tuttavia, il caos in Siria potrebbe costringere Pechino a rivedere le proprie priorità. La Cina potrebbe rafforzare i rapporti con la Turchia, ora principale attore nella regione, mentre continua a valutare con attenzione i rischi di espandere l’iniziativa geoeconomica della Belt and Road in aree sempre più instabili. Lo stesso dicasi per una possibile tregua a Gaza, con tutti gli occhi puntanti su Pechino per massicci investimenti infrastrutturali.
Mentre i festeggiamenti per la destituzione di Assad si diffondono dalla Siria alle comunità di emigranti siriani nel mondo, emergono interrogativi cruciali. Un volta decapitate tutte le statue simbolo della dittatura, reminiscenza di quanto accaduto nel vicino Iraq a seguito della caduta di Saddam Hussein, quale sarà il futuro della Siria?
Le ansie della Cina si concentrano su una Siria che potrebbe trasformarsi in un rifugio per gruppi terroristici, uno stato ultraconservatore come è appena accaduto nello Afghanistan controllato dai Talebani, uno stato fallito come la Libia massacrata dalla guerra civile e campo di gioco per potenze esterne o persino uno stato legato al narco traffico di Captagon, una droga sintetica che già alimenta l’economia parallela della regione.
La recente nomina di tre militanti uiguri di HTS, dichiaratamente anti-cinesi, a generale e colonnelli del nuovo esercito siriano preoccupa profondamente la leadership cinese.
Sul fronte della sicurezza, la Cina dispone di poche risorse da impiegare in Medio Oriente, avendo per anni beneficiato della presenza militare statunitense nella regione e continuando a seguire la sua politica di non interferenza.
La caduta di Muammar Gheddafi in Libia ha già dimostrato alla Cina i pericoli di sovrainvestire in aree instabili. All’epoca Pechino aveva pagato a caro prezzo il supporto incondizionato al regime libico, perdendo in una notte le lucrative concessioni petrolifere e dovendo evacuare 32000 lavoratori cinesi dal paese in fiamme. Anche se Assad aveva richiesto massicci investimenti per la ricostruzione, le imprese cinesi hanno preferito mantenere un profilo limitato.
Solo dopo il ritorno di Assad nella Lega Araba, la Cina aveva iniziato un avvicinamento pubblico con il presidente Xi che riceveva il suo omologo siriano nel 2023 sullo scenario della 19 edizione dei Giochi Asiatici ad Hangzhou. Numerosi osservatori occidentali avevano additato la foto di Xi Jinping che stringe la mano a Bashar al-Assad come una prova della complicità con il regime siriano. La risposta di diplomatici ed accademici cinesi non si è fatta attendere, sottolineando come la Cina non abbia mai fornito un supporto militare alla Siria, a differenza di quanto fatto da Iran e Russia.
L’approccio cinese alla Sira nell’ultimo decennio non è mai stato legato a massicci investimenti come per i paesi del Golfo, l’Iran o l’Iraq da cui proviene quasi la metà della necessita cinese di idrocarburi, bensì il legame con il regime siriano era cementato dalle medesime paure, l’ascesa di gruppi terroristici di matrice islamista.
Oggi, come già accaduto a seguito degli sconvolgenti eventi del 7 ottobre 2023 a Gaza, Pechino, adotta un approccio prudente ed attendista. Non essendo ancora capace di convertire la propria espansione economica in un efficace strumento di influenza e pressione politica, le opzioni di Pechino sono ridotte.
Nel contempo più della Siria, l’Iraq rimane centrale per la sicurezza energetica cinese, con ingenti interessi nei giacimenti petroliferi di Bassora ed una preannunciata espansione a nord verso Erbil nel Kurdistan iracheno. Eventuali ripercussioni dell’instabilità siriana sull’Iraq, sono state prontamente sottolineate dal Vice Rappresentante Permanente cinese Geng Shuang al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite subito dopo la caduta di Damasco.
La crisi siriana pone a Pechino la necessità di riconsiderare la sua tradizionale politica estera di non interferenza. Il modello cinese, basato sull'idea che investimenti e sviluppo economico portino sicurezza, si scontra con le violenta realtà del Medio Oriente, dove questo approccio non trova terreno fertile. La Cina si vede ora costretta a elaborare una nuova strategia, bilanciando il suo ruolo di potenza economica – con risorse finanziarie più limitate rispetto al passato – e le complesse dinamiche di sicurezza della regione.