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Massimiliano Bruno: «Un figlio a 53 anni dopo il tumore all'occhio. Paola Cortellesi è stata la mia musa»

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Ha scritto commedie di grande successo (Notte prima degli esami, Ex, Maschi contro femmine etc.), ha recitato in serie di culto come Boris (l'indimenticabile Nando Martellone) e ha diretto film molto popolari (Nessuno mi può giudicare, Viva l'Italia, Non ci resta che il crimine etc.), ma alla prima domanda – interlocutoria, d'educazione standard – Massimiliano Bruno, 54 anni, risponde con l'entusiasmo esagerato di tutti i neopapà del pianeta Terra: «Come sto? Bene, benissimo. Il 12 maggio è nato Adriano, io e sua mamma dormiamo a tratti, ma siamo felici. È tutto bellissimo. Posso pure star sveglio tutta la vita, non mi importa». Non dorme, Bruno, ma lavora come un pazzo: sta girando un nuovo film da regista e visto che dalla scorsa estate è anche il direttore artistico del Teatro Parioli Costanzo di Roma, dal 15 al 26 gennaio 2025 tornerà in scena con Lo stato delle cose (seconda parte) - citazione del film di Wim Wenders del 1982 - seguito del fortunato spettacolo che sempre al Parioli debuttò nel 2023. Con lui ci saranno trenta giovani, tutti ex studenti del suo Laboratorio di arti sceniche. Rispetto all'anno scorso, quando in scena Bruno portò una selezione di suoi testi, stavolta si tratta di materiale inedito, scritto, diretto e interpretato da trenta “suoi” ragazzi.

Dirige anche una scuola di recitazione, regia e sceneggiatura: non sarà troppo?
«No. Mi è sempre piaciuta l'idea di dare una mano ai giovani, ormai circa 300 l'anno. Abbiamo anche classi dedicate a quelli che nella vita fanno altro e vogliono solo divertirsi. Tra i nostri studenti ci sono i figli di colleghi come Edoardo Leo, mio amico fraterno; Giampaolo Morelli, Vittoria Puccini e Paolo Bonolis. Ogni tanto capita anche qualche giornalista».

Tipo?
«Di recente è venuto Marco Mazzocchi della Domenica sportiva». 

Cura la regia anche la sua compagna, madre di vostro figlio Adriano, Sara Baccarini. Anche in questo caso, non le sembra troppo?
«No. Mi conosce, sa cosa mi piace e mi fido di lei». 

E i proprietari del Parioli, fidandosi di lei, cosa le hanno chiesto?
«Di ringiovanire il pubblico. Questa offerta non me l'aspettavo: mi sono sempre visto fuori da certi giochi. Spero di farcela». 

Fin qui è andata bene: grazie a che cosa?
«Diciamo che la fortuna aiuta gli audaci. Io ho avuto il coraggio, e un po' d'incoscienza, di non crearmi un piano B e così a un certo punto mollai l'università, Studiavo giurisprudenza, mi mancavano tre esami per laurearmi, e avevo anche la tesi assegnata. Con un papà avvocato, però, che non voleva saperne di attori e recitazione, mi sono detto: “Se mi laureo, sono fottuto. Vado a lavorare con lui ed è finita”».

E quindi?
«Andai via di casa e decisi di provarci: mi dissi che entro i trent'anni avrei dovuto farcela a mantenermi, altrimenti sarei tornato indietro. La fortuna ha voluto che i miei compagni di viaggio, dei quali sono stato l'autore, sono diventati gli attori più importanti del cinema italiano: Paola Cortellesi, Edoardo Leo, Valerio Mastandrea, Marco Giallini... A Roma frequentavamo tutti il Locale di vicolo del Fico. Pierfrancesco Favino faceva il buttafuori. Daniele Silvestri, Niccolò Fabi e Max Gazzè suonavano. Io e Paola facemmo il primo spettacolo, Cose che capitano, nel piccolissimo Teatro Sette vicino a piazza Bologna. Andò bene. E poi fece il provino con la Gialappa's per Mai dire gol».

Alla fine siete diventati quelli del circoletto degli attori e dei registi romani che formano un gruppo di potere quasi impenetrabile, che fa lavorare sempre gli stessi: conferma?
«Se fosse così sarei ricco sfondato e non lo sono. Di sicuro posso dire che i produttori vogliono nei cast nomi sicuri per gli incassi e quindi è il mercato a imporre certe logiche. Poi, è ovvio: se posso lavorare con un amico, bravo, meglio così. Io, dopo i successi da sceneggiatore, quando mi chiesero di debuttare come regista scelsi subito Paola Cortellesi: oltre che amica del cuore, era diventata la mia musa. Comunque oggi lo star system in gran parte è composto da quelli della mia età. C'è poco da fare, è così».

Quindi il nuovo film con chi lo sta girando?
«Claudia Pandolfi ed Edoardo Leo. È una commedia sentimentale con un argomento che mi sta a cuore, anche perché ce l'ho dentro casa». 

Che intende dire?
«Io vengo tacciato dalla mia compagna di essere maschilista e lei, che ha 21 anni meno di me, è femminista. Che cosa succede, mi sono chiesto, se due così fanno un figlio?».

Che succede?
«Lo vedrà. È un film un po' autobiografico, che ragiona sulle coppie di oggi. A che cosa si deve rinunciare per fare in modo che un uomo e una donna possano mettere su famiglia?». 

Il titolo?
«Per ora Due cuori e due capanne, ma non sarà quello».

Il successo di Paola Cortellesi con “C'è ancora domani” le ha fatto venir voglia di fare cose più serie e andare oltre la commedia?
«Ognuno deve fare quello che sente. I progetti a tavolino non funzionano quasi mai».

Sia sincero, li ha già fatti: con “Non ci resta che il crimine” ha realizzato tre film e una serie.
«Sì, è vero». 

Quindi i film, suoi, a cui tiene di più in percentuale quanti sono?
«Diciamo quattro su dieci. Ho avuto problemi oncologici seri per cui ho pensato che quello fosse un modo sicuro per lavorare senza impegnarmi molto intellettualmente. Per fortuna, sono andati bene. Nella situazione in cui ero o mi fermavo cinque-sei anni, o facevo quello che ho fatto».

Lei ha combattuto con un tumore all'occhio destro, che ha perso, da 38 a 47 anni. Un'esperienza così, dentro, come l'ha cambiata?
«Dopo aver avuto paura di non farcela o di avere una menomazione, che poi alla fine ho, si cambia parecchio. Però si guadagna in coraggio: ho fatto un figlio e ora riuscirò anche a parlare di me in un film».

Con Mattia Torre – lo sceneggiatore celebre per “Boris” e tanti altri progetti - suo amico morto per un tumore nel 2019, avete mai parlato dell'eventualità peggiore?
«Sì. Abbiamo fatto lunghe e bellissime telefonate. Mattia era un ottimista, rifuggiva l'idea della morte. La sua ultima produzione, però, La linea verticale, era proprio il ragionamento di chi sa che si può andar via da un momento all'altro. Mattia, va detto, aveva una problema molto più grave del mio, quindi io ero più leggero rispetto a lui».

La cosa più importante da insegnare a suo figlio?
«Stare in armonia con le persone. Voler bene. Conta soltanto quello».

Allargherete la famiglia?
«No. Ci fermiamo. Troppo faticoso».

A lei come figlio cosa è mancato?
«I miei genitori erano combattivi: devi lavorare, guadagnare, sposarti...».

Vi siete detti tutti o è rimasto qualcosa in sospeso?
«I miei sono morti da tempo. Prima mia madre, poi mio padre. A lui negli ultimi anni sono riuscito a a dirgli il mio punto di vista. Ho scritto anche un romanzo che in qualche modo parlava di lui: si intitolava Non fate come me, però credo che non l'abbia mai letto. O forse ci è rimasto male. Gliel'ho regalato, ma non me ne ha mai parlato». 

La lezione più preziosa dell'ultimo anno qual è stata?
«Bisogna essere forti per tenere botta a tutto quello che arriva. Anche la nascita di un figlio può mettere in crisi perché devi cambiare e metterti in gioco. La lezione, ma anche il bello della vita, è questa: non c'è niente di facile. Mi sta bene così».

Il ringraziamento più importante a chi lo devi?
«Al mio analista. I primi anni con la malattia sono stati difficilissimi e lui è stato decisivo per farmi capire cose molto importanti, che ogni tanto fingo di non ricordare perché mi conviene».

Quali sono?
«Le ho dimenticate (ride, ndr)...».

Si è mai ubriacato di sé?
«Certo. Quando mi andava benissimo pensavo di sapere ogni cosa. Poi tutto si è normalizzato e sono tornato a terra, uno come tanti».

Declini le generalità: Massimiliano Bruno, 54 anni...
«Compagno di Sara, per me la cosa più importante della mia vita. E poi padre di Adriano. Di professione regista. Tutto qui. Punto».

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