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Mia madre voleva rimediare. Così ha detto, e non so da quanto tempo ci pensava. Ha trovato anche il momento giusto: la nascita del nipote. Mi sarebbe stata vicina quando diventavo io una madre. Non ho voluto, non troppo, la tenevo a bada. Volevo salvaguardare la nuova intimità a tre, ma era anche fastidio verso una presenza tardiva e invadente. Non l’avevo perdonata, non ancora. Immaginavo però di parlarci, prima o poi. Le avrei detto delle sue lontananze da me bambina, che mi avevano segnata. Rinviavo sempre la resa dei conti, come fossimo eterne. Poi lei è svanita in una lunga malattia e le parole le ho inghiottite.
È stata la protagonista assoluta dei miei libri, esplicita o in ombra, sotto altre sembianze. Mia madre ha abitato tutte le mie pagine. Solo scrivendone ho trovato una pace incompleta con il suo disamore. Non era disamore, era costrizione. Restava sottomessa agli uomini di famiglia, questo lo capivo già da piccola. Ma era impossibile che non si ribellasse per me, la sua unica figlia. Nemmeno da adulta l’ho mai accettato. Eppure era forte, battagliera. Combatteva sui campi, nella stalla. Combatteva contro le volpi, i temporali, la peronospora del pomodoro. Mai per me. Ubbidiva al suocero padrone e a mio padre. E io non me la prendevo con loro, gli uomini che la comandavano, me la prendevo solo con lei.
Nel mio ultimo romanzo non c’è, ma è morta una donna che le somiglia. Soggetta a chi la voleva «uomo in campagna e femmina in casa». Mia madre ci stava poco in casa. Quando c’era mi appiccicavo al suo corpo e s’infastidiva, aveva troppo da fare. Accendere il fuoco, cucinare, è difficile con una bambina addosso, è pericoloso. Mi è mancata più in vita che adesso. Era nata nel 1940. Adesso è un’assenza ineluttabile.
Il suo abbandono è stato tra le fonti della mia scrittura. Se fossi stata più nutrita da piccola non ci sarebbe stato motivo. Lei non aveva colpa, era una vittima. Quasi tutta la mia vita, e molte pagine prodotte, abortite, buttate e riscritte per arrivarci.
Nel 2022 esce in Italia per Adelphi Génie la matta, di Inès Cagnati, nata in Francia da immigrati veneti. Nel romanzo la famiglia di origine, benestante, ha ripudiato Génie, colpevole di averla disonorata. Uno a uno la donna scende tutti i gradi della scala sociale, fino a umiliarsi come serva nelle fattorie. Toccano a lei i lavori più sporchi e gravosi, ammazzare i conigli malati, per esempio. Sempre la segue, correndo sulle sue gambette, la figlia Marie, per tutti una bastarda. La insegue con la paura di perderla per sempre nella foschia della campagna. Marie è troppo piccola per sapere che certe madri sono imprendibili, divorate da dolori che i figli non conoscono e non possono consolare. Non starmi tra i piedi, le dice Génie, oppure: non piangere. E la sera: va’ a letto. Ma a volte la abbraccia e lei si sente beata. Sono quei rari momenti che non ci rendono mai libere. Ne proveremo nostalgia, aspetteremo all’infinito che si ripetano. Il racconto che Marie fa di sua madre commuove, disarma. La sua adorazione, la mia rabbia.
A volte penso che la presenza distante di mia madre non sia stata proprio vera, che l’immagine di lei lontana nel campo, la testa china sulle piante da crescere o da raccogliere e mai voltata dalla mia parte, possa essere una fantasia che io, una bambina troppo sensibile, mi sono portata avanti negli anni. Forse mia madre non mi ha abbandonata, forse è stato quello mio, di lei, un bisogno smodato. Dov’è l’eccesso, da una parte o dall’altra? Nel mio desiderio o nella sua sottrazione? Più probabilmente l’uno è stato amplificato dall’altra. E se anche fosse possibile trovare le misure, non servirebbe a niente. Quello che conta è il risultato, un vuoto cronico che ormai si raggrinzisce e si affloscia ma non cessa di accompagnarmi. E se questo abbandono intorno a cui sempre rimesto con la scrittura fosse più allucinato che vissuto, io avrei leggermente mentito nelle pagine, o almeno enfatizzato qualcosa che era poco.
Me lo chiedo e me lo perdono, almeno questo, ormai so che il lavoro della letteratura può consistere anche nella moltiplicazione del minimo. È in uno sfasamento, nella non corrispondenza al reale che digito su una tastiera il mio eterno bisogno di consolazione.
Quello che invece resta profondo e inguaribile è l’incapacità di farmi amare dalla mia stessa madre. Era l’amore più facile da ricevere e io l’ho mancato. Nel ricordo di me trovo una bambina brutta e piagnucolosa. Troppo difficile volerle bene. E anche lei non è proprio vera, non sempre. A volte sorridevo anche solo per una coccinella che mi camminava su un dito e, arrivata alla punta, prendeva il volo. O per un vitello rifiutato dalla mucca, che nutrivo con un grosso biberon fatto in casa. Credeva fossi io la sua mamma.
Nella vita capita di essere adottati.
Mia madre vive nei romanzi, in tutte le varianti a cui la costringo. È lei che si distrae, abbandona. È la stessa che maledice e cura, e le sue maledizioni non sa disfarle, le cure non sa ripeterle. Mia madre è frammentata in tutte le donne dei miei libri, se fosse ricomposta risulterebbe gigantesca, la gigantesca mia ossessione.