Aspettando Hamas, giorno 213. Israele ha fatto le sue proposte, Hamas altrettanto, ma bisogna aspettare martedì. Di nuovo. A Tel Aviv migliaia di persone sono scese in piazza contro il governo. Nella Striscia di Gaza la gente continua a morire. Alla Columbia vietano i bagel. I Queers for Palestine ci ripensano e dicono che non importa poi molto se quelli di Hamas vogliono buttarli giù da un palazzo. Scende in piazza anche il movimento dei fatties for Palestine, alla Statale non si sa cosa sia successo con il convegno su Israele, una raccolta fondi per l’organizzazione di una festa per i ragazzi della confraternita che ha protetto la bandiera americana alla Columbia è arrivata a mezzo milione di dollari, e forse nemmeno possono spenderli in birra.
Ieri, intanto, Osama Hamdan, alto funzionario di Hamas, ha dichiarato alla tv del Qatar Al-Araby Al-Jadeed che Israele «si è concentrato esclusivamente sugli ostaggi e non ha risposto alle richieste presentate da Hamas». Ha detto anche che loro hanno presentato «posizioni chiare che rispondono alle richieste del popolo palestinese». A chi conviene che la guerra finisca? Non a Netanyahu che finirebbe così la sua carriera di peggior primo ministro d’Israele, non a Yahya Sinwar che può ottenere quello che vuole, e nemmeno agli universitari che poi gli tocca tornare a studiare. La fine della guerra converrebbe solo a chi piange i propri morti, israeliani e palestinesi, ma loro non hanno niente da dare in cambio. La guerra è solo una dinamica di potere, si tratta solo con chi ce l’ha. Perché Hamas dovrebbe accettare un qualunque accordo anche solo un pezzettino meno di quello che ha chiesto? Non c’è motivo. Hamas ha l’amore della gente, gli applausi delle università, armi quante ne vuole, gli aiuti umanitari, gli scudi umani, perché sono terroristi, mica benefattori; che il popolo palestinese muoia di fame o sotto le bombe non sarà certo responsabilità loro, ma solo di Israele e dell’Occidente brutto e cattivo.
Anche se il mondo si è scordato che ci sono degli ostaggi, ci sono degli ostaggi. Ci sono centotrentatré persone sottoterra, tra cui donne e bambini, ci sono centotrentatré ostaggi, o forse trenta, o forse nessuno. Non si può pensare come a Monaco, perché ci sono centotrentatré persone nelle mani di stupratori e assassini. Ci sono centotrentatré famiglie che hanno il diritto di sapere per cosa piangere. Ci sono centotrentatré persone, o forse trenta, o forse nessuna, perché c’è anche la possibilità che Hamas stia trattando senza avere niente da dare in cambio. Non che questo possa incrinare l’amore del mondo occidentale verso quella che chiamano «resistenza». E allora bisogna aspettare, aspettare una settimana, poi due giorni, poi fino a martedì. E mentre si aspetta le persone continuano a morire.
Omri, il marito di Lishay Lavi Miran, è uno degli ostaggi, e qualche giorno fa Hamas ne ha diffuso un video: lui era vivo. Ieri lei ha scritto su X: «Chiedo a chiunque sia disposto ad ascoltarmi di non sprecare l’opportunità di un accordo». Dovremmo farlo tutti invece che straparlare come se fossimo in un bar permanente. Yahya Sinwar era uno dei terroristi rilasciati nel 2011 per lo scambio con Gilad Shalit. Lo scambio era mille per uno. Sinwar aveva un tumore al cervello, è stato operato, è guarito, è stato rilasciato. Se Dio esistesse, questa sarebbe la sua miglior sceneggiatura dai tempi della Bibbia.