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Ammalarsi sul lavoro. Arrivando a mettere in dubbio se stessi, le proprie capacità. A consumarsi nel fisico. A sparire. Il caso di Sara Pedri, ginecologa forlivese che ha fatto perdere le sue tracce il 4 marzo 2021 nelle vicinanze di un lago in val di Non, dopo aver dato le dimissioni dall’azienda sanitaria di Trento per cui lavorava da pochi mesi, ha acceso i riflettori su un reparto d’eccellenza, quello di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento. E ha fatto scattare anche un’inchiesta della Procura. Ora sono due i medici che, davanti al giudice, devono rispondere dei maltrattamenti in concorso. Ma sia il dottor Saverio Tateo, ex primario del reparto (che nel frattempo ha vinto la causa di lavoro contro l’Apss che lo aveva licenziato), sia la sua vice Liliana Mereu, in aula, nel corso di un esame fiume, hanno respinto con forza le numerose contestazioni. Negando che in reparto vi siano state ingiurie, umiliazioni e percosse al personale infermieristico, medico ed ostetrico. Nessun clima vessatorio a detta loro, nessun atteggiamento inquisitorio né minacce di sanzioni disciplinari. «Quando tocchi la comfort zone alcune persone reagiscono» ha spiegato qualche giorno fa in tribunale Tateo, che dovrà essere sentito ancora. Per lui «solo bugie e attacchi» nei suoi confronti da parte di chi «ha strumentalizzato anche la scomparsa della dottoressa Pedri». La mamma di quest’ultima, Mirella Sintoni, è parte civile nel processo. Tutta la famiglia porta avanti una battaglia coraggiosa. In nome di Sara e per tutte le vittime di mobbing. In prima linea c’è la sorella Emanuela.
Le angherie, l’omertà e l’ospedale caserma: l’inferno quotidiano dietro il mistero di Sara
Emanuela, voi non allentate la presa..
«Ancora di più adesso, il processo ha il suo tempo, non possiamo aspettare che si chiuda. Non ho potere sull’esito del procedimento penale, sulle ricerche di mia sorella, che sono convinta sia nel lago di Santa Giustina dove i cani molecolari hanno fiutato le sue tracce, ma ho quello di portare avanti la sua memoria, sperando in un risultato giusto. In questi tre anni io e la mia famiglia abbiamo rielaborato il lutto cercando di trasformare il buio in luce. Non siamo supereroi, io ho fatto un percorso. Di certo ci siamo sempre affidati alla giustizia e pensando a dove si è arrivati, al tipo di reato, si sono spostate le montagne. La sensazione è di aver scoperchiato un vaso di Pandora in quel reparto, dove i due medici imputati non a caso non operano più: a detta di mia sorella dei dispotici, con l’esigenza dell’autorevolezza; due grandi tecnici che hanno reso tossico quel reparto d’eccellenza».
Cosa intende per risultato giusto?
«Possono fare uno o nessun giorno di galera ma sarebbe una punizione circoscritta, fine a se stessa. Spererei che la giustizia, il sistema, arrivi a dare un esempio per tutelare e proteggere quel lavoratore calpestato. Insomma, che si crei un precedente per portare la legge sul mobbing in Parlamento, perché la morte di Sara non sia stata vana».
L’Italia è appunto uno dei pochi Paesi ancora privi di una legge in merito..
«Già, ad oggi non esiste legge che riconosca il mobbing. Succederà grazie a mia sorella? Ci abbiamo rimesso noi famiglia? Almeno non moriranno altre Sara. Si arrivino a salvare delle vite facendo rete anche con le istituzioni. Si crei un sistema che tuteli e protegga».
Quello su cui, avete sempre sostenuto, Sara non ha potuto contare..
«Proprio così, per assurdo in un ospedale, in un reparto dove nascono le vite, dove si vede la luce. Per mia sorella invece è stato solo il buio. Uno perde la testa, il lavoro e anche la vita: si ammala, si licenzia e si ammazza. Questa la drammatica sequenza».
Per Sara è stato così, vero?
«Si è spenta in soli tre mesi in quell’ospedale e noi abbiamo potuto fare poco. Era arrivata entusiasta a Trento, lei era puntuale, capace nel lavoro a detta delle colleghe ma in quell’ambiente tossico l’hanno fatta diventare un mostro. Raccontava: “qui è un inferno, non ce la faccio più”. Sara era terrorizzata, spaventata. Lì avvenivano fatti gravi: era stata colpita alle mani durante un’operazione, cacciata dalla sala operatoria, le era stato fatto togliere il camice. Diceva: “Mi dicono che non sono capace e forse è vero”. Si era convinta di essere incapace e inadeguata e si è ammalata. Le otto dottoresse parti civili nel processo sono morte che camminano. Non deve più accadere».
Il dottor Tateo in aula ha detto di non aver avuto sentore dei disagi di Sara se non quando è arrivata la richiesta di malattia. L’allora primario le avrebbe promesso il suo aiuto per trasferirla, ricevendo poi una mail di ringraziamenti da Sara.
«Cinque righe di ringraziamento per la formazione fatta in quei tre mesi, lo avrebbe fatto chiunque nel passaggio da un ospedale a un altro. Mia sorella temeva ritorsioni e lì avvenivano. La sua più grossa paura era quella di essere licenziata».
Sente ancora Sara vicina a lei?
«La ritrovo in alcuni segni particolari, che si presentano quando affronto situazioni stressanti, quando mi verrebbe quasi da fermarmi, spesso dopo emozioni forti legate a lei. E non sono coincidenze, no. È come se volesse dirmi “vai avanti, sei sulla strada giusta”».
Ci racconta qualche episodio?
«È accaduto anche di recente, dopo lo spettacolo a lei dedicato. Pulendo i ravanelli, che tanto amava, uno mi è caduto e tagliandolo è uscito fuori un cuore bianco, con una parte meno gonfia dell’altra. Lo stesso simbolo che ho ritrovato in altre circostanze, come dopo le sue ricerche senza esito, e in altri contesti: in un sasso, in un albero, in un disegno A terra. Lei si presenta così a me: è doloroso ma anche bellissimo».
A marzo, al terzo anniversario della sua scomparsa, avete creato l’associazione Nostos aps di cui lei è presidente.
«Ne sono orgogliosa ma anche spaventata, è un impegno notevole. E’ un’associazione a livello nazionale per aiutare le vittime di mobbing sul lavoro. Ci stanno già arrivando richieste di aiuto da varie parti d’Italia. Nostos è nostalgia, ritorno a casa, quello che Sara non è riuscita a fare. Ora, con l’aiuto di una serie di professionisti, potremmo aiutare altri come lei a ritrovare la strada. A denunciare. A non ammalarsi».