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Del successo - inteso come interviste, red carpet e selfie - ad Alex Britti è sempre interessato il giusto. Ovvero quasi nulla. Ha iniziato «guidato solo dall’istinto» e così ha continuato, dribblando le scuole di musica («chi va a lezione suona più di testa, che di pancia»), viaggiando per mezza Europa, mixando blues e pop. Tra il 2017 e il 2023 è pure sparito dai radar, per fare il papà a tempo pieno. La sua unica certezza è che non si separerà mai dalla sua chitarra: «Sarebbe come tagliarmi un braccio». Ed è per questo che Marco Liorni lo ha voluto, come coach, al talent Ora o mai più, in onda da stasera su Rai 1, per guidare gli artisti in cerca di riscatto.
Sarà più un maestro o un padre?
«Maestro no, padre men che meno: ho già un figlio, Edoardo, di 7 anni. Diciamo che sarò l’amico più maturo - non si azzardi a scrivere vecchio - che ti dà un paio di dritte al momento giusto. La verità è che questo nuovo ruolo mi imbarazza un po’: non devo guidare degli esordienti ma artisti che hanno comunque fatto un pezzo di storia della musica».
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Le canzoni, così come i libri e i quadri, funzionano solo se trovano un pubblico. Come si fa a non essere ossessionati, e ricattabili, dal successo? «All’inizio è facile: chi canta non lo fa spinto da un ragionamento, ma dall’istinto. È un dono che ti ritrovi per le mani. Io ho iniziato prestissimo, a otto anni, e dopo qualche mese sapevo già suonare discretamente a differenza degli altri miei amici. Il problema inizia quando la tua passione diventa il tuo mestiere. Lì entra in gioco il compromesso che non va inteso negativamente: devi scegliere quello che piace sia a te sia al pubblico. A volte purtroppo ce se ne dimentica».
A lei è capitato?
«Sì. A volte è difficile saper rallentare: quando una hit funziona sei catapultato in un turbine di impegni, interviste, concerti e qualcosa può sfuggire. Gli alti e bassi di carriera li abbiamo tutti».
Come vive i momenti di down?
«Ho imparato velocemente che la vera sfida è mantenere il successo: bisogna sempre lavorare come se fosse il tuo primo anno da cantante. I “no” non fanno piacere ma cerco di viverli come dei consigli: delle dritte che ti aiutano a raddrizzare il tiro».
Oggi per emergere si punta sulla provocazione, a costo di cantare testi sessisti e violenti. Se il pubblico approva vale tutto?
«Non è il rap ad avere inventato sessismo e violenza che sono invece diffusi tra alcuni ragazzi di una certa età. Il punto non è educare i cantanti ma educare i ragazzi. Se i giovani parlassero un italiano corretto e sposassero alti ideali, anche i brani di successo sarebbero così. Da padre over 50 mi impegno a promuovere una galanteria che sembra purtroppo passata di moda: mi piace per esempio far passare prima le donne, essere cavaliere, e quando lo fa anche mio figlio Edoardo sono felice».
Ma se suo figlio cantasse, come Tony Effe, “Metti il guinzaglio alla tua ragazza”?
«Gli spiegherei che si tratta di una provocazione, e che come tale va presa. Conosco Tony Effe ed è un ragazzo educatissimo, tutto fuorché misogino. Semplicemente, nei suoi brani ripropone il linguaggio della strada».
Edoardo canta le canzoni del papà?
«Solo quando io non ci sono, per farsi bello con gli amici. Il suo vero idolo è Alfa: siamo stati pure a un suo concerto e anch’io lo trovo bravissimo. Gli piace molto anche Mahmood: Soldi è il tormentone che impera a casa nostra».
Si è fermato per sei anni, per fare il papà. Si è sentito una mosca bianca?
«Nella coppia si ferma chi può farlo».
Di solito però sono le donne.
«È vero, ma qualcosa sta finalmente cambiando. Quando porto in piscina mio figlio trovo sempre più padri, come me. Diventare genitori è una figata: dentro di te scattano degli automatismi che non sapevi nemmeno di avere. Per esempio, ho scoperto di essere paziente. Prima se arrivava un pedalino nuovo per chitarra, avrei ucciso per giocarci subito. Oggi invece lo faccio dopo, perché la priorità è mio figlio: lascio volentieri i miei spazi a lui. Regalargli il mio tempo è bellissimo».
Però guai a chiamarlo mammo, vero?
«Non mi piace. Si usava una volta, quando certi ruoli erano considerati appannaggio della mamma. Per questo è più giusto chiamarmi padre».
Suo papà era bipolare. Com’era la relazione con lui?
«Be’, sono stato un bambino fortunato: avevo ben due padri, a seconda dei giorni. Battuta a parte, più che l’infanzia è stata complicata l’adolescenza. Il suo era un bipolarismo borderline, che è andato peggiorando con l’età. Non è un caso se, subito dopo il militare, sono andato a vivere da solo».
Ha mai temuto di avere le sue stesse fragilità?
«Sì, certo. Quando il problema di mio papà è stato diagnosticato, sono andato da uno psicologo per capire se avessi ereditato lo stesso disturbo. Per ora pare di no. La salute mentale è un tema cruciale, in passato è stato considerato a torto un tabù. Per come la vedo io lo psicoterapeuta è uno specialista tanto quanto un ortopedico. Si va in analisi non solo se si ha un trauma ma anche per funzionare meglio come persone. Io ci sono stato più volte».
Dalla chitarra non si separa mai. Cosa le piace così tanto?
«Adoro sentirla vibrare sulla pancia. Non riesco a farne a meno. A volte penso di essere un bipolare della musica: prima ancora del blues, quando ero ragazzino, ascoltavo i Beatles ed Elvis. Oggi sono un cantante, scrivo, faccio concerti ma adoro anche la musica strumentale: l’estate scorsa ho fatto solo festival blues, da chitarrista, senza cantare mai».