Home SignIn/Join Blogs Forums Market Messages Contact Us

Quando il patriottismo diventa l’ultimo rifugio dei furfanti

4 ore fa 1
ARTICLE AD BOX

Il mondo assiste con stupore, incredulo e a volte atterrito, alle esternazioni di Donald Trump, che ormai sta minacciando di infliggere sanzioni economiche o tariffarie a mezzo mondo.

Tuttavia, è l’amministrazione Biden al suo crepuscolo che ha recentemente inferto un altro colpo –che difficilmente resterà isolato– a quell’ordine globale liberale che ha assicurato la prosperità dell’Occidente e dei paesi usciti dalla povertà. Infatti, uno dei principi cardine di questo ordine globale liberale è che non solo le merci dovrebbero essere libere di spostarsi da un paese all’altro, premiando i consumatori e i produttori più efficienti, ma anche i capitali. Muoverli liberamente vuol dire investire dove ci sono le migliori opportunità creando benessere e sviluppo. Naturalmente, spostare grandi masse di denaro in pochissimo tempo può creare squilibri e turbamenti finanziari, ma non è certamente questo il caso quando i soldi sono impegnati per un preciso investimento, ponderato, pubblico e che passa al vaglio delle autorità antitrust e di vigilanza, quando insomma si compra una società. Poiché non viviamo in un mondo perfetto o senza tensioni geopolitiche, anche le acquisizioni di imprese sono sottoposte ad alcuni limiti utili non solo ad evitare un’eccessiva concentrazione di imprese che crei troppo potere di mercato, bensì pure a scongiurare rischi dal punto di vista della sicurezza nazionale. Solo un alieno potrebbe pensare che in nome del libero commercio dovrebbe essere permesso a Putin di diventare azionista di riferimento di una grande banca occidentale o agli ayatollah di acquisire un’industria degli armamenti. Purtroppo, però, come ricordava lo scrittore inglese Samuel Johnson nel XVIII secolo, «il patriottismo è l’ultimo rifugio dei furfanti»: quando si è a corto di argomenti razionali ci si rifugia nel patriottismo elevandolo a sentimento irrazionale per giustificare qualsiasi nefandezza.

Questo è quel che sta succedendo negli Stati Uniti con la proposta di acquisizione di U. S. Steel, gigante americano dell’acciaio, da parte di Nippon Steel, acciaieria giapponese. I paesi che producono più acciaio sono la Cina (1 miliardo di tonnellate l’anno), l’India (140 milioni), il Giappone (87 milioni) e gli USA (81 milioni). U. S. Steel rappresenta solo 1/5 della produzione americana e sopravvive unicamente grazie alle tariffe all’importazione di acciaio che sono state innalzate sia dall’amministrazione Trump che da quella Biden, altrimenti non sarebbe più competitiva. Questi dazi hanno ovviamente elevato in America il costo di produzione di qualsiasi bene che utilizzi l’acciaio, dalle costruzioni alle automobili. L’acquisizione da parte di Nippon ha molto senso dal punto di vista economico e finanziario, portando liquidità, know-how, tecnologia e risparmio di costi: difatti il consiglio di amministrazione di U. S. Steel l’ha appoggiata entusiasticamente. Chi si è opposto allora? Il sindacato a sinistra e i sovranisti economici a destra. Gli uni temono di perdere le condizioni economiche concordate col datore di lavoro americano a favore dei lavoratori nonché il loro potere all’interno della fabbrica, gli altri paventano l’ingresso dello straniero nell’economia americana che mal si concilia con la parola d’ordine “MAGA! ” .

Il modo migliore per bloccare il tutto è stato dunque di comportarsi come i furfanti di Samuel Johnson e fare appello a motivi di «sicurezza nazionale», scusa patetica considerando che sia il Segretario di Stato Blinken sia il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Biden, Sullivan, sono favorevoli all’operazione! Il veto è così sproporzionato che entrambi U. S. Steel e il suo promesso sposo giapponese (il Sol Levante è peraltro un paese amico e alleato degli USA) hanno fatto ricorso alla Corte d’Appello per far annullare la decisione in quanto abnorme.

Questa attitudine, che con Trump in arrivo è destinata a peggiorare, dovrebbe far suonare un campanello d’allarme anche per i politici europei e per la nostra premier Meloni quando vagheggiano di “campioni europei” industriali o quando inaspriscono la normativa cosiddetta della Golden power. Questa legge consente al governo di impedire le acquisizioni nei settori cosiddetti strategici; tuttavia, inizialmente era pensata per motivi di sicurezza nazionale, con acquirenti aventi sede in paesi “problematici” e per poche e ben specifiche attività imprenditoriali. Oggi, dopo varie evoluzioni normative, praticamente è un miracolo se l’acquisizione di una drogheria a Teramo da parte di una latteria a Pescara non passa per il vaglio governativo.

Però chi di spada ferisce di spada perisce e noi italiani, cui è stata bloccata qualche anno fa un’importante operazione di Fincantieri in Francia e che adesso con Unicredit ci vediamo ostacolati in Germania con le scuse più assurde, dovremmo essere più sensibili degli altri nel capire i pericoli del protezionismo che –ricordiamocelo– non colpisce solo i capitali, ma anche le merci e noi sappiamo che l’export è il settore più trainante della nostra economia. La presidente Meloni, al contrario di qualche suo alleato, è stata lesta a comprendere i vantaggi politici di atlantismo ed europeismo (anche ideali, ma diciamo che quelli interessano i sognatori come chi scrive). Ora percorra l’ultimo miglio e difenda il libero scambio: dove passano le merci non passano gli eserciti.

Leggi tutto l articolo