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Dal 1948, con la Dichiarazione universale dei diritti umani da parte della Assemblea generale delle Nazioni Unite, che il riconoscimento e la rivendicazione dei diritti umani hanno cambiato natura. I diritti umani sono infatti entrati nell’area del diritto internazionale, da cui erano stati a lungo esclusi perché ritenuti far parte del dominio riservato degli Stati. Il Bill of Rights inglese (1689), quello americano (1791) e la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino (1789) ne hanno fornito il primo, essenziale elenco. Ma si è sempre trattato di testi di portata costituzionale interna: esplicitata dall’uso inglese di indicarli come “i diritti degli inglesi”. Tali sono, non ostante il linguaggio enfatico e universalistico delle rispettive Dichiarazioni, anche i documenti di Francia e Stati Uniti.
L’irrilevanza delle frontiere statali e la necessità di protezione internazionale in prospettiva ne erano però la logica conseguenza. Ma si dovette aspettare la tragedia delle guerre del’900 con le vaste e crudeli violazioni dei diritti umani dei singoli e dei popoli, per veder riconosciute la rilevanza internazionale della loro violazione e la responsabilità della Comunità internazionale. Con la Dichiarazione universale dei diritti umani, ad esse si è accompagnato il riconoscimento del nesso tra pace e tutela dei diritti umani: nel duplice senso che la loro violazione porta alla guerra e che la pace favorisce il loro sviluppo. Da allora le Carte dei diritti umani menzionano il rapporto che lega il riconoscimento dei diritti umani alla pace tra gli Stati e al loro interno. Si tratta di consapevolezza fondata sull’esperienza storica ed anche sull’attualità che viviamo. Le Convenzioni internazionali contro il genocidio, la tortura e i trattamenti inumani, così come le norme del diritto dei conflitti armati per la protezione dei civili, sono esempi di come la pace e i diritti umani si intreccino.
Da allora le violazioni dei diritti umani non sono più insindacabili affari interni degli Stati. La Comunità internazionale nel suo complesso e nelle sue istituzioni ne viene interpellata e la sovranità degli Stati messa in questione e limitata. Un rivolgimento culturale, politico, giuridico. Certamente debole nelle sue concrete realizzazioni, ma potente sul piano ideale. Assistiamo a momenti di crisi del rispetto dei diritti umani, che si lega alla crisi del diritto internazionale (vedi l’intervento di giovedì di Nathalie Tocci su questo giornale). Per quanto riguarda i diritti delle persone, dei gruppi e dei popoli, il quadro non è però univoco. Vi sono stati anche rilevanti avanzamenti, con riforme legislative nazionali spinte da norme e decisioni di origine europea o internazionale. Tutto ciò trova origine nella Dichiarazione del 1948, da cui deriva anche la Convenzione europea dei diritti umani (1950), il cui titolo completo, accanto ai diritti umani, menziona le libertà fondamentali. È dalle pretese individuali di libertà che deriva la difesa dei diritti, contro negazioni e limitazioni imposte senza ragione dagli Stati o da potenti ed oppressive espressioni sociali. Spesso all’interno degli Stati il rispetto per la libertà individuale è l’unica possibile via di superamento di conflitti che, paralizzando persino i Parlamenti, oppongono gruppi politici e sociali intenzionati ad imporre a tutti il proprio esclusivo punto di vista. I giudici nazionali e quelli delle organizzazioni europee –come la Corte europea dei diritti umani, la Corte di Giustizia dell’Unione europea– e internazionali –come la Corte Internazionale di Giustizia o la Corte Penale Internazionale– sono al centro di ogni possibile sistema che garantisca i trattati su cui i diritti e le libertà si fondano. Ma essi non ne sono all’origine.
L’origine è strettamente politica, frutto di accordi tra governi e di ratifica parlamentare. I governi che violano i diritti umani e le libertà fondamentali o le regole del diritto internazionale non contravvengono a norme loro imposte dall’esterno: essi ne sono invece gli autori. Ma il nazionalismo montante in Europa e nel mondo porta a disconoscere il processo di civilizzazione aperto dalla Dichiarazione del 1948. È sotto gli occhi di tutti la crisi di effettività dei diritti e delle libertà proclamati a livello internazionale (e di riflesso di quelli che si leggono nelle Costituzioni nazionali). Ne è causa il non riconoscimento delle decisioni dei giudici delle Corti internazionali da parte degli Stati. Israele, Russia e Stati Uniti ne sono esempi recenti. La questione è di lunga data. Vi è chi vede nella crisi la dimostrazione dell’inettitudine dello strumento giuridico rispetto alla politica (di guerra) degli Stati. Ma le difficoltà gravi non tolgono che il movimento, originato da ciò che avvenne durante e tra le due guerre del secolo scorso, meriti di essere coltivato. Anche a costo di apparire ingenua utopia, incapace di contrastare la realtà della forza degli Stati. Non è però la stessa cosa se un diritto non esiste o se il diritto è riconosciuto ma violato, anche impunemente. La lotta per i diritti –in particolare i diritti che derivano dal rispetto della dignità umana– trae forza dalla sua legittimità, che facilita condivisione ed efficacia. Il lungo periodo è proprio di una simile lotta. Essa non convive con la rassegnazione di molti, che, vestita di realismo, si apparenta all’accettazione dell’esistente. Anche della sua barbarie.