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La morte della mamma di Bambi. Di quella di Cenerentola, di Biancaneve- l’odio delle matrigne per loro, nell’assoluta indifferenza o inesistenza paterna. La morte del padre ne La piccola principessa che precipita Sara dal dormire nella suite del collegio alla soffitta, bullizzata dalla servitù. L’ambiguità come sottinteso dell’intera faccenda di Lady Oscar, la quale era una femmina, tutti alla corte di Maria Antonietta lo sapevano, la chiamavano madamigella: eppure, quando passava per i corridoi vestita da capo delle guardie reali, le dame dietro ai loro ventagli arrossivano, eccitate. L’attrazione per Georgie da parte di quelli che lei, fin da quando era neonata, aveva considerato i suoi fratelli, la lenta agonia di Beth in Piccole Donne, la solitudine di Remi e de Il piccolo Lord, pur nelle diverse condizioni sociali in cui si ritrovavano a crescere, un titolo: Incompreso, perfino speranzoso rispetto a quanto nel finale avrebbe aspettato il lettore, Il tamburino sardo e il mazzo delle storie disgraziate che raccontava il Perboni ai suoi allievi, come se avessero bisogno di ulteriori amarezze rispetto a quelle a cui li inchiodava il loro quotidiano: chi, come me, è cresciuto negli anni Ottanta, non solo ha formato il suo immaginario su questi libri, questi cartoni animati, questi sceneggiati televisivi. Ma era quasi sempre da solo, sul divano, mentre leggeva, mentre guardava la televisione: senza nessun adulto che gli spiegasse chi era quel personaggio, chi era quell’altro, perché si comportava così, amore non ti preoccupare: poi arrivano i buoni, e se non arrivano comunque vincono. Era solo anche davanti ai suoi genitori mentre litigavano- amore, può succedere: non ce lo diceva nessuno. Se si lasciavano- amore, la nostra famiglia non si sta spezzando, si sta solo trasformando, sarà un occasione per tutti, erano parole inimmaginabili per noi da ascoltare. Era solo, senza troppe spiegazioni, anche quando i nonni sparivano, era solo, soprattutto era solo a scuola. Con il compagno che lo prendeva in giro, con quello che gli piaceva, a cui si ritrovava a pensare prima di addormentarsi, era solo quando la maestra gli diceva eh no, così non ci si comporta. Perfino se arrivava a punirlo in una maniera eccessiva rispetto al suo misfatto. Era solo. Meno solo di quanto lo erano stati i bambini che poi sarebbero diventati i suoi genitori, certo, e comunque sottoposto a sfide che cominciavano ad abbassarsi ad altezza uomo- anche se non sempre ad altezza bambino. Comunque era solo.
Come i bambini, dalla nostra generazione in poi, per fortuna, non sarebbero più stati, come oggi nella maggior parte dei casi non sono: perché, grazie a quanto era successo a partire dalla fine degli anni Sessanta, alle conquiste per le libertà e per i diritti, noi, anche se nessuno ci spiegava niente, abbiamo preteso di capire. Grazie a un certo benessere, alle sicurezze che i nostri genitori, mentre ci lasciavano soli, ci avevano garantito, siamo andati in analisi. Abbiamo aperto la possibilità di un dialogo, quantomeno dentro di noi, con i padri, le madri. I più fortunati, fra i quali ci sono anche io, hanno ottenuto perfino che i padri e le madri gli rispondessero- purtroppo solo grazie al tuo dolore per non essere stata ascoltata, quando avevo quasi sessant’anni sono riuscito a raffinarmi nelle emozioni, mi ha detto poco tempo fa mio padre.
E adesso che possiamo offrire ai nostri figli la prima generazione di genitori psicanalizzati, o che comunque di es e super-io hanno sentito parlare, che facciamo? I simpatici su Instagram con i compagni di classe dei nostri figli: passi. Ma, come sostiene Susanna Tamaro, nel frattempo li priviamo dell’incontro con tutto quello che simpatico non è. Che non è piacevole, non è giusto, è confuso. Però esiste. E invece di trasformare in fiori e frutta da regalare a loro, il seme della solitudine con cui siamo cresciuti dentro al petto, incolliamo l’emoticon dello smile che ride fino alle lacrime sulla nostra faccia e su quella del mondo. Meglio del broncio impenetrabile che avevano i nostri genitori? Forse. Perché dietro a quel broncio c’era un’incapacità di affrontare anche con se stessi certi temi. Dietro a questo smile c’è la paura di non ottenere like dai nostri figli. C’è un’idea di protezione che non fa onore alle nostre sofferenze di bambini, di adolescenti, feriti non tanto da quello che ci succedeva attorno, ma dal fatto che nessuno si prendesse la briga di spiegarci che cosa succedeva. Mentre a un bambino si può parlare di tutto: proprio di tutto. In bambinese, certo, e la scommessa è quella di misurarsi, grazie a un semplice o complicatissimo slancio di empatia, con una lingua che tanti di noi, quando era il loro turno, non hanno potuto imparare. Ma un figlio è anche, per dirla con Tom Robbins, la straordinaria occasione perché non sia mai troppo tardi per costruirsi un’infanzia felice. Perfino cercando per lui le parole per l’infelicità.
«Perdonami, ma la considero un’esperienza troppo impattante per mio figlio», mi hanno detto la maggior parte delle mamme degli allievi di CreaVità Kids, la sezione dedicata ai bambini della mia Scuola di Scritture Creative, quando a tenere la lezione sarebbe toccato a Simona Atzori. La straordinaria ballerina e pittrice e scrittrice nata senza braccia che invece di condannarsi all’handicap ha deciso che allora, per stare al mondo con e come tutti gli altri, avrebbe usato le gambe. I piedi. Soprattutto, fatemelo scrivere fuori da ogni retorica, l’intelligenza, la sua voglia spasmodica di partecipare al gioco della vita. C’erano solo due bambine, alla sua lezione, fra cui mia figlia. E moltissimi adulti senza figli cresciuti negli anni Settanta, Ottanta. Ci ha fatto disegnare con i piedi, ci siamo abbracciati con le gambe. La sera, in bagno, ho trovato mia figlia che si lavava i denti provando a tenere lo spazzolino con le dita dei piedi, mentre rideva. Imparando, credo, più a fondo che se avesse ricevuto qualsiasi predica sulla diversità fine a se stessa, che un essere umano può fare di tutto, per cambiare il suo destino. Lo spazio per il mio intervento finisce qui, ci sarebbe tanto, così tanto da aggiungere: proviamo a farlo ogni giorno, ognuno per sé, con nostro figlio, nostra figlia.
Discriminiamo che cosa è una violenza inaccettabile e che cosa è una semplice mortificazione con cui fare i conti. Non ripariamoli da un brutto voto, dalla morte della mamma di Bambi, di Beth, dalla gamba che perde il tamburino sardo, dalle braccia che mancano a Simona Atzori. Non ripariamoci. Attraversiamo con loro l’ombra: è l’unico modo per indicargli dov’è, davvero, la possibilità di una luce.