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Giulio Napolitano riceve la prima lettera dal padre il giorno dopo avere compiuto diciotto anni: reduce da una festa con gli amici, si alza alla mattina e trova sul tavolo una busta chiusa con l’intestazione della Camera dei deputati.
È il luglio 1987. Il padre, Giorgio Napolitano, vive un tempo sospeso - che è il tempo di tutti in cui il vecchio mondo della Guerra fredda comincia a cedere il passo al nuovo mondo globalizzato -, non è più capogruppo alla Camera del Pci, dov’era stato mandato a inizio decennio da Enrico Berlinguer, e non è ancora parlamentare europeo. Ancora lontani gli anni ’90, in cui Napolitano sarà presidente della Camera, il primo ministro dell’Interno proveniente dal Pci, soprattutto lontani nel futuro gli anni al Quirinale. Eppure. «Lasciami comunque cogliere l’occasione del superamento di questa frontiera ideale (la maggiore età, ndr) per dirti quanto sia felice di vederti sereno, ricco di interessi e di impulsi e proteso con così grande energia verso l’avvenire».
Quando Giulio Napolitano è nato, nel luglio 1969, suo padre Giorgio aveva già 44 anni. Giulio è un bambino orgoglioso. Guarda dal basso in alto lo sconfinato oggetto della sua ammirazione. Lo segue in tv e sui giornali.
Troverete in questo libro il disegno del padre a firma del figlio, al tavolo di lavoro di Montecitorio. Troverete un bambino che impara a memoria non soltanto l’Almanacco del calcio, ma anche la Navicella, la piccola enciclopedia dei parlamentari prima di Google, due passioni parallele e convergenti il giorno in cui, Giulio tredicenne, investito da un’auto, ingessato, riceve la visita dei campioni della Lazio, Bruno Giordano e Lionello Manfredonia, condotti al letto della sua degenza da Walter Veltroni.
E dunque, quella mattina del diciottesimo compleanno, molto del moltissimo di Giorgio Napolitano doveva ancora compiersi, eppure la lettera schiude in Giulio la consapevolezza di non vivere solo per sé: «Avevo l’impressione che ogni mio comportamento mettesse in gioco, nel bene e nel male, anche l’immagine pubblica e la reputazione di mio padre».
La lettera, cioè, è una testimonianza d’amore e diventa l’imperio della responsabilità. Non mi sono mai ubriacato, a differenza dei miei compagni di scuola, scrive Giulio. Dovevo sempre mantenere il controllo. In ogni situazione, senza deroghe o eccezioni. Anche le relazioni con le ragazze, scrive, se mutavano in dipendenza emotiva, acuivano il rischio dell’instabilità. La lettera - sono fiero di te, scrive il padre - diventa ai suoi occhi un’investitura: pure lui dovrà portare sulle spalle parte del peso del mondo che il padre sente sulle sue.
Forse io sto tradendo le intenzioni dell’autore. Nel libro, lungo, particolareggiato, appassionante, c’è di che soddisfare le curiosità anche feticiste degli entomologi della politica. I dettagli non mancano, ne risplende ogni capitolo: i burrascosi rapporti con Enrico Berlinguer, quelli mai compiuti con Bettino Craxi, la caduta del comunismo sovietico, gli sconquassi di Tangentopoli, i viaggi e gli amici americani, da Antonin Scalia a Barack Obama, i segretari del postcomunismo, da Achille Occhetto a Massimo D’Alema a Matteo Renzi.
In quasi cinquecento pagine, un’alluvione di storie, personaggi e aneddoti raccontati dal privilegiato punto d’osservazione di figlio (imperdibili le tre righe in cui scopre, in un comizio di campagna elettorale, un occasionale cedimento del padre all’oratoria populista). Soprattutto il senso ultimo e costante della vita politica di Giorgio Napolitano, custodito in ogni riga: la ricerca di una sinistra emancipata dal canone e dalla liturgia sovietica, dal mito della propria purezza, aperta alle idee e ai venti del mondo.
E però niente ha la forza della verità - anche se occupa una parte minoritaria del libro - quanto la questione privata che travolge la vita politica e, allo stesso modo, la questione politica che travolge la vita privata. Giulio Napolitano usa più volte un’espressione che ne è il vestito su misura: il mestiere di figlio. Un insieme di doveri, di incombenze, di privilegi e di dolori di cui non ha voluto spogliarsi.
«Ero disposto ad accettarli per il bene di mio padre e di ciò che egli rappresentava per l’Italia». Un intreccio struggente di amore privato e responsabilità pubbliche che prorompe nel carteggio, una quindicina di lettere, in cui si assiste al passare del tempo, dalle lettere in cui il padre sostiene e incoraggia il figlio, a quelle in cui il rapporto si fa paritario, quelle in cui il ragazzo è ormai uomo e osa qualche critica troppo sfacciata al padre, che il giorno dopo gli scrive «ieri sera sei stato presuntuoso e urticante», fino alle ultime, in cui il vecchio presidente chiamato al secondo mandato, che ancora si sente sulle spalle il peso del mondo, chiede espressamente a Giulio di prenderne un po’ sulle proprie, quando tutto si è ribaltato secondo le spietate leggi della vita.
«Giulio, il rientro in Senato e il successo che l’ha segnato sono opera tua non meno che mia, e lo sai bene», scrive l’ormai ex presidente in un definitivo passaggio di consegne.
Tutto è stato possibile per un incastro raro fra la modernità del padre, capace di instaurare un rapporto diretto col figlio, inatteso in un uomo della sua generazione, e fatto di affettuosità privatamente esibite, di scientifico cedimento di terreno mano a mano che il figlio cresce, studia, diventa un apprezzato professore universitario, e reso possibile dalla dedizione silenziosa e accanita del figlio al padre. Il mestiere del figlio che prevedeva, naturalmente, che l’altro facesse il mestiere del padre, poiché tutto nelle nostre vite è scosso da una questione privata.