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Io, felice per il ritorno di Cecilia, ma il mio pensiero va a Lo Porto

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Non è stato necessario che prendessi una decisione. Le cose si accumulano come quando si mette un foglio sopra l’altro e diventa quasi il totale di un contabile. Non posso fare diversamente. Gioiamo, tutti, per il ritorno di Cecilia Sala: nessuno può farlo più e meglio di me che ho percorso la sua stessa strada, conosco l’attesa dell’ostaggio che è qualcosa che sta fitta nella carne come una spina; e a lei mi unisce il tempo incomunicabile del prigioniero. Sì. Quando c’è uno sprazzo di gioia non bisogna lasciarselo sfuggire. Rinforza quando la vita attorno a noi è dura.

Io e Cecilia Sala siamo stati due sequestrati diversi dagli altri: perché apparteniamo a una categoria, i giornalisti, che per mestiere e possibilità sa tener viva l’attenzione, combatte al tuo fianco di scomparso, metodica, ogni giorno la stanchezza della memoria pubblica e privata, tiene viva l’attesa il dolore la speranza. Credo che Cecilia Sala, per questo, sarebbe la prima ad approvare che io non scriva di lei, ma parli d’altro, di altri.

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Io devo parlare di Giovanni Lo Porto, un sequestrato che non è tornato a casa dal Pakistan dove l’aveva rapito al Qaida, una vittima su cui è sceso l’insulto insopportabile del silenzio, del nostro silenzio privato e istituzionale. Che è sprofondato nel silenzio del suo stesso abisso. Perché è una vittima che non ha il diritto di esserlo. Che vuol dire morire di nuovo ogni giorno, per sempre.

Al suo dovrei aggiungere i nomi di altri che in questi anni non hanno distillato attimo dopo attimo la gioia del ritorno, di chi è rimasto nel mondo delle porte chiuse con la catena e delle ombre incappucciate: una benda sugli occhi mani che ti stringono e la vita, la tua, subito afflosciata, affondata, a picco come un pietra. erano operai tecnici cooperanti: i caratteri miti di cui parlava Dostojevsky .

Voi non conoscete Giusi, sua madre. Come potreste? Nei tre anni della scomparsa del figlio nessuno l’ha intervistata... il silenzio stampa già. Non bucava il video Giusi, eppure aveva molto da raccontare: per esempio la storia del suo adorato ragazzo che si era sciolto dall’abbraccio del quartiere difficile (non diciamo così per no offendere?) di Palermo, una realtà obbligata come un destino, per studiare, andare all’estero diventare un samaritano laureato della assistenza internazionale. Un ragazzo di quelli a cui abbiamo dato internet ma non un lavoro. Che se l’è dovuto creare con mani pazienti. Una bella storia, non credete, esemplare da farci un podcast.

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Sono passati dieci anni da quando è stato ucciso. il corso del tempo traversa senza sconti i lunghi fogli del calendario. In Pakistan era andato per soccorrere le vittime di una alluvione con una Ong tedesca e lì lo hanno sequestrato i terroristi. So che per lui l’impegno, la professionalità la passione umana di chi, (“l’unità di crisi” governativa credo che si chiami ancora così) ha cercato di riportarlo alla luce dal pozzo in cui era stato trascinato sono state pari a quelle spese per Cecilia Sala. Lo so perché coloro che cercarono invano per tre anni Lo Porto erano gli stessi che hanno riportato a casa me.

Lo scandalo della sua morte allora dove è? Coloro che lo hanno ucciso non sono quelli che lo hanno rapito, al Qaida i talebani e la loro guerra in nome di un dio medioevale e totalitario. Non avevano sul muro la bandiera dell’isis, non manovravano la telecamera per i loro assassini spettacolo. volevano venderlo, tenendolo vivo. Il ricatto ha le sue regole e loro, ferocemente le hanno rispettate per tre anni. Lo hanno ucciso, con un drone con un altro ostaggio americano, coloro che avrebbero dovuto aiutarci a tenerlo vivo, gli americani. La scena che vedete nei fil... Siamo soldati americani... è tutto a posto... Ora andiamo a casa... Beh Lo Porto non l’ha mai vissuta.

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Alla madre dicevano... Tutto procede bene... Le trattative sono al punto finale... Poi, improvviso, duro, atroce, il silenzio. E un giorno, mesi dopo, Barak Obama organizza una conferenza stampa e spiega: durante una importante operazione militare contro al Qaida in Afghanistan sono stati uccisi due ostaggi... Un danno collaterale imprevisto di cui mi assumo la piena responsabilità... Cala immediato il sipario: il governo dell’epoca accetta la spiegazione, una necessaria fatalità... La lotta al terrorismo... La sicurezza... Le alleanze. Il magistrato chiude rassegnato un fascicolo che resta vuoto: nessun elemento è arrivato dagli Stati Uniti. Alla Camera dove il ministro riferisce il niente i banchi sono vuoti. Il suo corpo torna in italia in sordina, come una vergogna da nascondere. Al funerale provvede per iniziativa personale il sindaco di Palermo.

Avete capito perché nessuno ricorda il nome di Lo Porto, perché non c’è una via una piazza una scuola intitolata a questo tragico eroe italiano? Perché lo hanno ucciso i “buoni”, gli americani. Una colpa imperdonabile la sua: non ha diritto di stare accanto alle altre vittime del terrorismo. Abbiamo fatto in fretta a render muta la nostra pietà.

Perché allora riscrivi questo proprio ora? Scrivo perché questo ragazzo che io non ho mai conosciuto di persona, il cui sequestro mi è stato consegnato dalle parole della madre mi ha insegnato che si possiedono per intero soltanto i morti. Perché non possono fuggire neppure al nostro amore. Tutto pulsa e muta e separa e perfino la gioia non è più la stesa cosa già nel momento in cui affiora. Solo i morti sono fedeli. Questa è la loro potenza contro cui è inutile lottare.

Non esiste il modo di non dimenticare nulla e di rinnovare ogni cosa, di sublimarla perché non faccia più male, di trasformarla senza perdite senza tradimenti, senza diserzioni.

Il giorno in cui Cecilia Sala è stata liberata ho immaginato cosa provava Giusi Lo Porto a vedere le scene meravigliose che lei non ha mai vissuto. Non l’ho chiamata: per l’infantile paura che si prova per le sofferenze altrui.

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