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«È tempo di tornare alle nostre radici sulla libertà d’espressione». Il 7 gennaio, a pochi giorni dall’inizio del secondo mandato di Donald Trump, Mark Zuckerberg annuncia la fine della collaborazione con i fact-checker. Il loro lavoro verrà sostituito dalle note con cui le persone stesse, che postano e leggono, informano sui contenuti dei tweet, qualora li trovino falsi e fuorvianti. È ovvia la resa del fondatore di Facebook a Trump e al suo “Make America Great Again”.
Allo stesso tempo, ogni richiamo alla libertà d’espressione deve essere preso sul serio e forse vale la pena ritornare ancora una volta sulle parole del messaggio, sospendendo per un attimo la tesi dell’opportunismo politico-economico. Se dobbiamo fare ritorno alla libertà, significa che essa si è persa o quantomeno è minacciata. Nel 2016, dice Zuckerberg, abbiamo fatto nostre le preoccupazioni per la disinformazione e ci siamo rivolti a controlli esterni. Ora quei fact-checker si stanno trasformando in poteri di censura politica che distruggono più fiducia di quanta ne possano creare. Per stanare qualche «bad stuff», qualche robaccia postata da malintenzionati, si sta pagando il prezzo di togliere la libertà di espressione a «molti innocenti». L’invito è dunque quello di tornare alla fede iniziale su cui Facebook è stato fondato, la fede nella capacità delle interazioni spontanee di giungere alla verità. Ed è qui che l’ad di Meta ci mette di fronte alla sua convinzione per così dire filosofica, condivisa del resto con gli altri visionari della Silicon Valley. Se il gioco rimane libero da vincoli e regole e a tutti viene data la possibilità di partecipare, alla fine inevitabilmente si giungerà a quell’armonia in cui libertà, verità e realtà vengono a coincidere. Al diavolo dunque i controllori della realtà dei fatti.
Certo, ogni forma di controllo porta con sé dei rischi. Lo sappiamo. Nella fattispecie, nessuno può garantire in maniera assoluta che i principi di terzietà, neutralità e correttezza nelle procedure di verifica vengano rispettati dagli operatori del fact-checking. Come sanno bene gli storici, la realtà di un fatto non è un’apprensione immediata, una fotografia istantanea di una situazione, ma è un processo di verifica fragile e complicato. Spesso le fonti non parlano da sole, vanno interrogate, contestualizzate, interpretate. Ancor più i fact-checker, meno accorti degli storici, possono essere portati a filtrare i fatti attraverso i loro pregiudizi politici.
Ma che cosa sottende la volontà di rinunciare alla verificabilità dei fatti? Mi preoccupa che nel dibattito, oggi riacceso dall’annuncio di Meta, non si faccia menzione del pericolo che la scelta comporta. È davvero più libera una vita che non ha bisogno di assicurarsi della realtà di ciò che asserisce? Non ogni verità in cui crediamo corrisponde a un fatto o una costellazione di fatti. E non ogni fatto o insieme di fatti ambisce allo statuto autoritativo della verità. Ma che tipo di libertà è quella che ci consente di far circolare come reale e fattuale una tesi che soltanto per noi è una verità indubitabile?
In questi giorni ho sentito a più riprese celebrare la scelta di Meta come scelta di libertà, anche da parte di chi probabilmente non avrebbe mai votato Trump e ancora meno tiferebbe per le visioni di Musk. Probabilmente lo fanno in nome di quelle che a loro parere sono le idee chiave del liberalismo. Dimenticano, tuttavia, che proprio la liberal-democrazia ha incarnato nel secondo dopoguerra soprattutto l’ideale del limite: il limite del potere e tra i poteri, ma anche il limite che impedisce a chi ritiene di possedere la verità di trasformarla in realtà e il limite che protegge la realtà dei fatti, per quanto problematica e fragile sia, dalla potenza e prepotenza dei possessori della verità. La pratica del fact-checking non corrisponde al Ministero della Verità di orwelliana memoria. Per quanto esposta all’errore possa essere, essa esprime, più umilmente, la speranza di mantenere saldi i nostri legami con ciò che è reale. Perderli vorrebbe dire consegnarci a un universo senza regole e mediazioni, dove saremmo finalmente liberi di esprimerci in una totalità fatta di spettri.