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Meloni-Musk, Parigi vale ancora una messa?

3 ore fa 1
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«Parigi val bene una messa», espressione attribuita a Enrico di Navarra che abbandona il calvinismo e si converte al cattolicesimo salendo sul trono di Francia col nome di Enrico IV (1594).

Forti di un’ipnotica aggressività nietzschiana, Donald Trump ed Elon Musk, tra minacce d’invasioni e progetti di transumanesimo, incarnano una tendenza pop di grande successo: la fine delle inibizioni del potere. Ovvero, il contrario della democrazia, di cui quelle inibizioni, unico ostacolo ad un autoritarismo di stampo russo-cinese, sono l’essenza. Come ci riguarda tutto questo? In molti modi. Uno in particolare.

È il magic-moment di Giorgia Meloni, ma forse, per lei, quello più pericoloso. È reduce da un indiscutibile trionfo diplomatico, è la leader più solida d’Europa, detiene un potere politico non contendibile a destra e non insidiato a sinistra, è politicamente ancora giovane (mercoledì compie 48 anni, auguri) e non è sfiorata da alcuno scandalo. Si può non condividere quello che fa e che pensa, ma è difficile negare che sia solidamente in sella.  

Eppure, il capolavoro della liberazione di Cecilia Sala, costruito con perizia in collaborazione con l’Aise, rischia di essere annichilito, a partire dal 20 gennaio, dai nuovi equilibri internazionali a trazione Maga (Make America Great Again, America First, gli altri in coda) e a trasformarsi nella sua nemesi.

Qual è il grado di compatibilità tra la Nuova America, che considera il pianeta una pista da bowling sulla quale fare scivolare la palla della sua risorgente volontà di potenza, e la Vecchia Europa, chiamata ad allinearsi o a diventare un birillo da abbattere? È ancora possibile immaginare un equilibrio valoriale e civile con il più importante dei nostri partner? Semplificando «spadolinianamente», Giorgia Meloni è in grado – e ha voglia – di ricucire le due sponde dell’Atlantico, riavvicinandole, o ha deciso di allentare il legame della piccola Italia con l’Europa per concedersi senza rete all’abbraccio del boss di Mar-a-Lago, Donald Trump, e del debordante Elon Musk?

Invitata al Gran Ballo a stelle e strisce, stregata sulla via che dal 1600 di Pennsylvania Avenue porta direttamente su Marte, Giorgia Meloni ha deciso di danzare. Ma in questo caso, tornando ad Enrico di Navarra, siamo sicuri che Parigi valga questa messa satellitare? Meloni è l’estremo baluardo europeo o il sofisticato cavallo di Troia del neo-imperialismo washingtoniano? Vuole fare da ponte o aprire l’era suicida dell’ognuno per conto suo?

Passo indietro. Mercoledì, villa Taverna, Roma. L’ambasciatore uscente, Jack Adam Markell, organizza un party di commiato. Ministri, alti dignitari, giornalisti, imprenditori e amici vari. Fa un bel discorso, si congratula per la liberazione di Cecilia Sala e stringe molte mani. A chi gli chiede di Trump, Markell risponde usando una definizione di Peter Thiel, miliardario tech ex socio di Musk e volto più noto della PayPal-mafia (copyright di «Fortune», che mise in copertina Thiel e i suoi collaboratori vestiti come corleonesi nel 2007): «Trump è un uomo che va preso seriamente ma non alla lettera». Non troppo rassicurante. «Vuole dimostrare al mondo che è in grado di controllare tutto». Può? «No».

Non può controllare tutto. Di certo può controllare molto. E dove non arriva lui ecco entrare in scena Elon Musk, genio con auto-diagnosticata sindrome di Asperger che concentra nelle sue mani un potere e un quantitativo di denaro senza precedenti nella storia dell’uomo. È con lui che facciamo affari. È il re della Space economy. Dalle connessioni internet al controllo delle ambasciate, dalla meteorologia alla Difesa. Ogni cosa illuminata passa da lì.

Musk è un uomo semplice e complicatissimo, tutto affari e futuro con un atteggiamento sospetto nei confronti dell’umanità. Uno che, attraverso la capillarità di X (fu Twitter), mette bocca su ogni cosa, dai giudici italiani ai primi ministri inglesi, dall’autodeterminazione del Canada alle elezioni tedesche. Per questo, due giorni fa, ha intervistato Alice Weidel, leader appena consacrata dell’AfD, riuscendo a sostenere assieme a lei, che Hitler era un comunista. E che, ovviamente, solo il partito filonazista di Weidel è in grado di garantire alla Germania un futuro luminoso. Come? Tagliando le tasse (e dunque, ma questo non si dice, lo stato sociale) e dando la caccia agli islamici, nuovo mantra di ogni nazionalismo estremista non solo della terra, ma dell’intera galassia. Musk ha allargato il campo, oltre ad avere abolito il fact checking. Make Via Lattea Great Again.

Se n’è parlato poche ore, poi si è passato ad altro. Come se fossero circostanze senza peso. Facezie. Sciocchezze relative. Sono invece vistosi segnali d’allarme. Siamo entrati in una fase della storia in cui le regole sono saltate e i popoli decidono di affidarsi a uomini che si sentono – e di fatto sono – al di sopra della legge. Tecno-feudatari senza scrupoli, rapidi ed efficaci, che sentendo la debolezza della democrazia la sostituiscono con un dominio virile, capace di scelte immediate che da sempre affascinano la destra. Il ritorno, appunto, della volontà di potenza. Il contrario della civiltà occidentale, ed europea in particolare, post-bellica.

I fantasmi del secolo scorso rivisitati dall’algoritmo muskiano alla ketamina. Se vi sembra il principio del caos, avete ragione. Adeo Ressi, amico italo-americano con cui Musk organizzava le sue prime feste universitarie a Filadelfia, parlando con Walter Isaacson, dice del tycoon sudafricano: «Gli piaceva stare in mezzo alle feste, ma non vi partecipava mai del tutto, sembrava l’osservatore di un altro pianeta che cercava di apprendere le dinamiche della socialità umana». Aveva, anche lui, il sospetto che, se qualcuno gli avesse tolto la maschera, sotto avrebbe trovato un enorme lucertolone verde. Tendendo ad escludere che venga da un’altra galassia, è certo che in un’altra galassia Musk ci voglia andare. I soldi li fa attraverso molte cose. Soprattutto satelliti, di cui è sostanzialmente monopolista in Occidente (con quasi settemila, destinati a sestuplicare) e che, come è noto, vuole vendere anche a noi che ne avremmo un certo bisogno.

Problema. Ci si può fidare? Meloni si fida. Crosetto anche. Nel dubbio, ha fatto una breve telefonata all’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani. L’ho trovato in macchina, di ritorno da Thales, dove era andato ad occuparsi di aerospazio, business che entro il 2030 muoverà all’incirca mille miliardi e che è meglio non lasciarsi scippare. Cingolani, uomo con idee chiare e pensieri rapidi (in questo piacerebbe a Musk), non ha e non può avere una posizione politica rispetto a scelte consegnate al governo. Ma due considerazioni, che sintetizzo malamente, le fa. Le anticipo con una piccola agenda. Ci sono molte società, provider, che controllano satelliti (anche se nessuna a livello di Starlink). Questi provider gestiscono delle «costellazioni» che vendono «banda», che sarebbe il corrispondente celeste delle frequenze televisive. Chi compra «banda» accede al satellite e cripta un segnale di cui è l’unico titolare. Dunque – salvo hacker e criminali – se anche noi comprassimo satelliti da Starlink, investendo circa 1,5 miliardi, Musk non sarebbe in grado di accedere ai nostri dati. Mentre noi utilizzeremmo la banda per migliorare i collegamenti internet, mappare le ambasciate e mille altre cose. La Difesa? Si muove già oggi in autonomia, attraverso propri satelliti. E qui arriviamo alle considerazioni. La prima: «Se ci fosse un accordo in essere noi di Leonardo lo sapremmo. In questo momento un accordo non c’è. I satelliti però sono necessari. Da qualcuno li devi comprare. Musk li ha. L’Europa è indietro a causa di procedure complesse». Ovvero: abbiamo le capacità, tanto più in Italia, ma investiamo pochi soldi e siamo soffocati dalla burocrazia. La seconda: «L’Europa si deve muovere compatta e in tempo reale. Il senso di urgenza sta crescendo esponenzialmente. L’alternativa è dire: non ho le mie costellazioni e rinuncio alla sfida». Dunque, per quello che riguarda i satelliti una strada esiste: usiamo pro tempore quelli di Musk, prepariamo le nostre costellazioni e poi ognuno per la sua strada. Questo in teoria. Ma, in pratica, che cosa farà Meloni? Fino a che punto spingerà il compromesso? Fino a che punto si consegnerà? Da quale parte del tavolo ci farà sedere se non sarà più possibile stare su entrambe? Siamo sulla soglia di un ennesimo, eppure inedito, matrimonio nella cattedrale americana, l’organo sta suonando l’inno nunziale, ma a questa messa ha davvero senso partecipare per dire sì?

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