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C’è ‘o mar for’. Ma occorre guardare (anche) oltre il cielo. Dopo la serie tv Mare Fuori di Rai 2, l’impressione – televisiva – è che si fosse ormai già detto tutto sulle carceri minorili. Invece all’appello mancava ancora un elemento: la realtà. Ed è qui che si colloca la nuova docu di RaiPlay Oltre il cielo: a metà strada tra lo storytelling seriale e la cronaca dei tg. Il titolo, realizzato da Pepito Produzioni per Rai Contenuti Digitali e Transmediali in collaborazione con il Ministero della Giustizia, entra ed esce da questi due mondi: si apre con il caso degli agenti del Beccaria arrestati ad aprile con l’accusa di violenza e tortura, si chiude con il racconto della tentata evasione, passando per una rosa di riflessioni che svelano speranze, paure e ambizioni di chi passa la propria adolescenza in carcere.
Il passo è quello agile degli episodi da 30’, lo stile asciutto e «neorealista», come sottolinea il regista Alberto D’Onofrio. Non ci sono intervistatori, né tanto meno ragazzi con volti coperti, ma solo un campo e controcampo di confidenze, raccolte in una lunga cavalcata di colloqui che sono iniziati a ottobre 2023 e terminati a febbraio 2024 negli istituti Beccaria di Milano e Fornelli di Bari. Con loro, anche le testimonianze degli educatori, dei volontari e dei cappellani Don Gino Rigoldi e Don Claudio Burgio, responsabile anche della comunità Kayros. «I ragazzi all’inizio erano restii: apparire in tv espone al rischio di essere ricordati come criminali», continua il regista. «Mi hanno domandato perché avrebbero dovuto metterci la faccia. Ho risposto: vedendovi, i vostri coetanei che hanno iniziato a intraprendere una strada sbagliata potrebbero cambiare idea». Così molti si sono concessi alle telecamere a cominciare dal 22enne Brian che, oltre a svelare il suo passato, si trasforma in un piccolo Cicerone: parla con gli altri ragazzi, chiede quale siano stati i loro trascorsi e le speranze per il futuro. «Di solito non lo fanno mai: nessuno pone domande agli altri», assicura il regista.
Lo spaccato è tutt’altro che rassicurante: c’è chi ammette che «il carcere non è servito a nulla, quando uscirò farò più macello di prima», o chi addirittura preferisce restare dentro, temendo le Sirene della vita quotidiana. La maggior parte ha iniziato a delinquere per «avere soldi facili», spesso seguendo le orme dei genitori. Alcune – troppe – storie si interrompono a metà perché, durante le riprese, i diretti interessati vengono trasferiti nelle carceri per adulti, a causa del loro comportamento ingestibile. Per Don Gino si tratta spesso di «una specie di omicidio»: alcuni ragazzi non possono reggere all’inattività di quel tipo di prigioni. «Per noi educatori è una sconfitta», dice a La Stampa l’educatore barese Stefano Mansi, «in 14 anni di carriera ho seguito circa duemila ragazzi: il 10% si è salvato e ha fatto scelte di vita diverse». Davanti a una percentuale così bassa, la domanda sorge spontanea: ne vale la pena? «Il mio lavoro è come quello di un chirurgo del pronto soccorso: si mette in conto l’elevato tasso di fallimento. Ma finché anche solo uno si potrà salvare, andremo avanti». La situazione tuttavia non è facile: gli istituti sono piccoli, le forze dell’ordine scarse e poco formate e, per via del decreto Caivano, il numero dei ragazzi sempre più elevato. Verrebbe quasi da pensare che il caso dei secondini arrestati a Milano sia in parte figlio di quella decisione politica: «Non possiamo dire che sia una conseguenza diretta, però sicuramente il Beccaria, come tutti gli altri Ipm, ha accusato il colpo», continua Mansi, «l’aumento degli ingressi ha messo sotto stress le strutture». Nel documentario Marcello Viola, procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Milano, commenta: «Quanto è accaduto al Beccaria infonde un senso di sconfitta non solo personale ma dello Stato». Gli fa eco Antonio Sangermano, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile: «Non c’è nulla di peggio della violenza dello Stato. Tuttavia, senza sicurezza esisterebbero solo i diritti dei più forti che sono i più ricchi e i più violenti». La sfida è tutta qui: trovare un equilibrio tra amore e rispetto.