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Quattro anni di amministrazione Biden ci avevano quasi fatto dimenticare le dissennate e talvolta pericolose politiche del primo mandato di Trump. Adesso, tuttavia, “The Donald” sembra tornato più in forma e convinto di prima non solo a dichiarare, ma anche a mettere in atto decisioni erratiche e improbabili. Perché nella sua ultima conferenza stampa, a seguito dell’incontro con il premier israeliano Netanyahu, Trump ha annunciato un nuovo piano per Gaza che prevede la gestione diretta di Washington a «lungo termine» al fine di trasformare le macerie di un territorio, raso praticamente al suolo, in un’elegante area turistica stile riviera del Medio Oriente, con tanto di promenade sul mare, si suppone. C’è un problema, cosa fare dei palestinesi della Striscia. Anche per questo il presidente americano ha una soluzione che prevede l’allontanamento forzato di 2 milioni circa di palestinesi da riallocare in Egitto, in Giordania o in altri Paesi arabi. La rettifica subito arrivata da parte dell’entourage di Trump, che sottolinea come in realtà si parli di uno spostamento temporaneo, nei fatti, non ne attenua la gravità.
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Derubricare il piano a semplice “follia” sarebbe fin troppo semplice. È proprio ragionandoci su, anche per esercizio stilistico, che si fatica a capire la fattibilità e gli eventuali effetti di una dichiarazione selvaggiamente irrazionale come questa. Innanzitutto, tale progetto andrebbe a contraddire la prospettiva americana fin ora disegnata dal nuovo inquilino della Casa Bianca, rompendo il tabù dell’isolazionismo per un intervento diretto nell’area e ignorando la storica avversione alle avventure americane all’estero, come quelle disastrose in Iraq e in Afghanistan. Un “neocolonialismo” americano richiederebbe un impegno probabilmente decennale di decine di migliaia di soldati statunitensi in una zona che, nonostante i migliori sforzi di Israele, continua ad essere presumibilmente in mano all’agguerrito Hamas. Dietro a questa mossa non c’è solo l’ombra di un agire irresponsabile, ma un nuovo modo di intendere le relazioni internazionali basato sulla forza, la minaccia, l’affarismo sfrenato degli “uomini del presidente” della Silicon Valley, in sfregio al diritto internazionale che catalogherebbe l’occupazione del territorio palestinese e lo spostamento obbligato dei suoi abitanti come crimine contro l’umanità. «Reinsediare» tutti i palestinesi fuori da Gaza, presentandolo come «gesto umanitario», ha un nome tecnico: si chiama deportazione, come viene definita dalle principali testate giornalistiche internazionali, o pulizia etnica, come viene denunciata dai vari Stati arabi che si sono repentinamente ribellati alla proposta.
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In particolare, il governo egiziano, impegnato in una battaglia costante contro la Fratellanza Musulmana, un movimento a cui Hamas è affiliato, è terrorizzato dal rischio di dover gestire centinaia di migliaia di palestinesi in arrivo da Gaza nella Penisola del Sinai, per lungo tempo fuori dal controllo del governo centrale. E la Giordania, più che per metà abitata da palestinesi, teme per la stabilità del suo regno senza nemmeno il bisogno dell’arrivo di nuovi sfollati. Dall’altra parte l’Arabia Saudita si è affrettata a confermare che la creazione di uno stato palestinese è condizione indiscutibile per riaprire il dialogo con Israele. I governi di questi paesi sanno bene che la mossa di Trump porrebbe la pietra tombale alle legittime rivendicazioni palestinesi della nascita di uno stato indipendente a Gaza e in Cisgiordania. Dall’altra parte della barricata, anche i coloni israeliani potrebbero non sostenere questo piano, se non altro perché nel loro messianismo religioso-nazionalista vorrebbero reinsediare Gaza e non permettere agli americani di costruire hotel di lusso e fare della Striscia una Las Vegas in salsa levantina.
E qui, allargando il cerchio, la conta dei disastri che produrrebbe questo nuovo piano per Gaza sarebbe esponenziale: sancirebbe la fine di ogni possibilità di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, allontanando ancora il rafforzamento degli Accordi di Abramo; indebolirebbe i trattati di pace tra Egitto-Israele e tra Giordania-Israele, che sono pilastri della politica statunitense nella regione; inoltre, incastrerebbe gli Stati Uniti in un conflitto regionale, un risultato che nessuno vuole in America, soprattutto Trump, o almeno così si direbbe