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Nelle ultime settimane, a volte si ha quasi l’impressione che la guerra della Russia contro l’Ucraina abiti due dimensioni diverse. La prima, diplomatica-politica-mediatica, continua a discutere una soluzione che appare imminente: Volodymyr Zelensky dice che «l’accordo non è mai stato così vicino», Donald Trump constata «un grande progresso» riguardo a un ipotetico negoziato tra Kyiv e Mosca, Vladimir Putin rilascia interviste piene di complimenti a indirizzo del presidente americano, e il suo portavoce smentisce le indiscrezioni di stampa sulla scelta di Dubai come luogo delle trattative di pace.
Nello stesso tempo, nel mondo reale continuano a esplodere bombe, volare droni e morire civili e militari: la commissione di monitoraggio dell’Onu ha comunicato un’impennata di omicidi di prigionieri ucraini da parte dei russi, con 79 esecuzioni soltanto negli ultimi cinque mesi.
Mentre i giornali titolano sugli accordi di pace, la guerra continua: le truppe russe continuano l’avanzata nel Donbas, e i missili e droni ucraini continuano a colpire raffinerie, fabbriche e depositi militari in territorio russo, con una costanza e una metodicità che fanno pensare che la macchina militare di Kyiv sia molto meno esausta di quanto si creda.
Forse è proprio questo l’obiettivo di questi raid nelle retrovie russe, così come gli omicidi dei militari e propagandisti russi, probabilmente per mano degli infiltrati dei servizi ucraini. L’ultima vittima di queste esecuzioni punitive è stato ieri Armen Sarkisyan, in arte “Armen di Gorlovka”, boss criminale e comandande di un battaglione di separatisti di Donetsk, ricercato da Kyiv dal 2014 per aver organizzato attentati agli attivisti della rivoluzione del Maidan.
Un attentato in uno dei complessi residenziali per ricchi e famosi più celebre di Mosca, le “Vele rosse”, che a quanto si dice avrebbe provocato uno shock nei servizi russi. Il fatto che lo spionaggio ucraino – molto probabilmente grazie anche a complici interni alla Russia – colpisca ripetutamente nella capitale russa non è soltanto destabilizzare i putiniani, ma è anche un modo per dimostrare al mondo che il regime russo è molto più vulnerabile di quanto possa sembrare. Fa parte della serrata trattativa in corso, che si svolge non solo con telefonate e lettere, ma anche a colpi di bombe.
Una trattativa su più piani, e ieri Donald Trump ha messo sul tavolo anche i metalli rari dei giacimenti ucraini, che Kyiv dovrebbe “garantire” in cambio degli aiuti americani. Una proposta che in realtà faceva parte del piano che Zelensky aveva proposto a Trump ancora prima delle elezioni americane.
Da ex imprenditore, il leader ucraino aveva perfettamente compreso che i giacimenti di litio, titanio, grafite ucraini potevano interessare a un altro presidente-businessman probabilmente più di principi e valori astratti di democrazia e libertà. Il fatto che Trump menzioni le terre rare come parte del “deal” che vuole concludere può essere considerato come un punto a favore dell’Ucraina, così come le pressioni americane su Kyiv per nuove elezioni per sostituire Zelensky possono venire lette come una concessione a Putin.
Che però potrebbe rivelarsi un boomerang per Mosca: secondo i sondaggi, l’unico candidato in grado di battere facilmente Zelensky oggi è il generale Valery Zaluzhny, l’idolo della resistenza all’invasione russa.