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Carlo Lucarelli: “Discendo da Meucci. Da giovane ero un punk”

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Romanziere, saggista, personaggio televisivo, esperto di misteri italiani e creatore di celebri personaggi come l’ineffabile Coliandro, Carlo Lucarelli torna in tv con La nave dei folli in onda su Sky Arte e Now dal 20 gennaio. Il concetto di pazzia nel corso dei secoli viene raccontato attraverso sei personaggi storici, ognuno a suo modo emblematico del fatto che... non lo fosse: Nerone e Giovanna di Castiglia , la scultrice Camille Claudel, Robert Schumann e l’attivista e psichiatra Madeleine Pelletier, Lombroso che incontra Tolstoj. Fedele allo stile che il pubblico conosce e ama, Lucarelli racconta, supportato nella ricostruzione di quei casi da immagini animate e da uno staff di esperti e studiosi del comportamento umano.

Perché un tema ancora oggi tabù come la follia?
«Ci interessava riflettere sul concetto di pazzia attraverso esempi concreti. Pazzo è considerato chi fa cose strane, ma in modo estremo. È un concetto all’apparenza semplice che va però elaborato e che è cambiano nel corso dei secoli. Alcuni che vennero trattati da folli, oggi si sa che non lo erano affatto, però del mondo avevano una diversa visione e conflittuale. Ecco: noi abbiamo scelto persone di quella visione hanno subito le ripercussioni. Se esce dalle convenzioni, anche il genio rischia di essere annoverato tra loro. Non tutti però sono genio e sregolatezza».

Lei è ancora famoso per avere raccontato un paio di decenni fa i misteri d’Italia su Rai3, quali le piacerebbe raccontare oggi?
«Più che misteri userei la parola segreti: del mistero non sai nulla, segreto è qualcosa che ti nascondono. Amerei riprendere alcuni di quelli che ho già raccontato perché nel frattempo sono successe molte cose, fatti passi avanti, celebrati processi: la strage di Bologna, Ustica, i cosiddetti “misteri di mafia”. Allora li raccontavo in modo ancora investigativo e nebbioso, oggi avrei più certezze».

Casi più recenti e nuovi?
«Allora mi interessavano gli attentati, le bombe, i morti. Oggi direi i soldi, la finanza: con meno cadaveri ma sempre molte morti, civili o politiche, che sarebbe bene analizzare».

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Pensa che siamo un Paese di smemorati?
«Sì, lo siamo. Ci stupiamo sempre: ricchi di storia e poveri di memoria. Io stesso lo sono. Per esempio, lo siamo sulla nostra storia coloniale, da metà 800 al dopoguerra e poi ancora oltre. Se a Lampedusa arriva un barcone e scende Asmareth, non sappiamo neppure dire se è uomo o donna. Se fosse un Frank non avremmo dubbi. Sto in Emilia Romagna, eppure ogni volta ci sorprendiamo che la natura possa essere così micidiale: eppure dovremmo sapere (sappiamo) tutto di quel territorio e della sua fragilità. O, sempre da noi, siamo rimasti increduli per una retata di ‘ndrangheta, eppure lo sappiamo dal 1992 che si era diffusa in Emilia. Di cosa ci stupiremo la prossima volta?».

Per svelare qualche mistero in più, basterebbe togliere il “segreto di Stato”, o resterebbero inafferrabili?
«Non basta desecretare. Per prima cosa dovremmo trovarli quegli armadi e quei cassetti. In ogni caso, ammesso che venga tolto il segreto di Stato e che arrivino ricercatori ad aprirli e a divulgarli, non basterebbero le liste di dati e fatti. Occorrono intellettuali, storici e narratori che sappiano poi ricostruire quell’immaginario. Non basta arrivare a un processo. Persone e fatti devono essere fatti rivivere. Poi, certo, di materiale ce ne sarebbe tanto. Ma appunto: mai stato desecretato».

Parliamo di lei, ora: che sia discendente di Meucci si sa. Ha altri ascendenti famosi?
«Meucci alla lontanissima: l’inventore del telefono era bisnonno di mia nonna, che era una Meucci. Non c’entro niente invece con i Manzoni, che pure fan parte della mia famiglia per via indiretta: lo era infatti Gaetano, secondo marito di mia madre, del ramo nobile dei Manzoni-Borghesi di Lucca con cui era imparentato Alessandro, ramo cadetto. Insomma, parentela acquisita. Nessun dna letterario in transito neppure lontanamente».

Ora nessuno lo direbbe, ma è vero che ha avuto una gioventù punk? Dentro lo è ancora?
«Forse non più lo spirito ribelle, ma mi piace ancora quel mondo: il punk non invecchia mai. La loro musica, quello che viene definito “fracasso” da chi non sa, continuo ad ascoltarla. È sempre tempo di punk: alla fase distruttiva segue sempre quella che mette le basi per costruire. Dopo i Sex Pistols seguono sempre i Clash. Magari quello che una volta avresti chiamato punk ora lo chiami in altro modo, me ne ha lo spirito. Una volta le mie gemelle oggi tredicenni (allora avranno avuto 10 anni) mi hanno chiesto cosa stessi ascoltando. Ho provato a spiegarlo: mi sono sentito come mio nonno mentre mi raccontava della mazurka. La loro musica sono i Vocaloid di sintesi giapponesi, oppure il rap polacco. Una volta le ho sorprese a cantare ritornelli polacchi».

Per loro ha scritto fiabe nerissime e le ha rese protagoniste di un romanzo, Thomas e le gemelle. Ne racconta ancora?
«Sempre: io a loro e loro a me. Una delle due in particolare scrive racconti. E ci relazioniamo su cosa e come scrivere».

Che papà è?
«Grazie a un lavoro che me lo permette, molto presente. Non inizialmente. Poi verso i loro due anni, mi ruppi un legamento e per quasi un anno sono rimasto a casa con le bimbe addosso. È stato bellissimo. Ora sono grandicelle e più distaccate, però continuo a restare a casa il più possibile, vivendo un po’ schizofrenicamente: al terzo piano, nel mio studio, scrivo di morti ammazzati e sbudellamenti, poi scendo al secondo e ho loro in braccio, quindi risalgo e torno ai miei delitti. Non potrei fare a meno di questa alternanza con loro».

La preoccupa il futuro?
«Sono cresciuto negli anni dell’equilibrio del terrore atomico senza averne mai paura. L’ho scoperta ora che ci sono loro. Ma viviamo a Mordano, chi mai ci bombarderà... Poi c’è il cambiamento climatico: mi preoccupa, ma mi consola pensare che la loro generazione sia più in gamba della nostra e forse riuscirà a salvare davvero il Pianeta».

Vero che fu Fazio a favorire l’incontro con sua moglie?
«Se vogliamo... Andai a Che tempo che fa a presentare il mio libro sull’Eritrea, L’ottava vibrazione. Mi misero in un hotel di lusso. Al desk lavorava questa ragazza di origini eritree che mi riconobbe e mi chiese se ero io quello che aveva scritto del suo Paese. Iniziò tutto così. A un certo punto della nostra storia le dissi che non mi sarei mai sposato, non avrei avuto figli e neppure convissuto. Mi prende ancora in giro... Evidentemente il proposito era ferreo solo a parole».

Si immaginava il successo di Coliandro?
«Nel libro era un disperato politicamente scorretto e cattivo ma con una vena comica. I Manetti e Giampaolo Morelli gli hanno dato maggiore profondità. Farlo accettare, primo poliziotto così fuori dagli schemi, non fu facile ma dopo la prima stagione è diventato un personaggio di culto popolare: se Montalbano e Schiavone hanno dei fan, i “coliandristi” sono ultrà: c’è una “Armata Coliandrina” e i “Coliandro Ultras”».

Tornerà?
«Io e Rigosi siamo pronti con nuove avventure, il problema maggiore sono gli impegni dei Manetti e di Morelli».

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