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Talvolta i simboli ingannano. L’ammontare e le variazioni del debito pubblico italiano rappresentano uno di questi simboli e la notizia di ieri che, a fine novembre, il debito aveva superato, per la prima volta, la soglia di 3000 miliardi di euro è stata accolta da molti italiani in maniera nettamente negativa: un altro passo verso l’Apocalisse. Non è così, e gli specialisti, gli operatori e i mercati finanziari in generale ne hanno dato una valutazione positiva: il mitico «spread», il principale termometro della debolezza finanziaria italiana – indica il «di più» che lo stato italiano deve pagare in interessi per farsi prestare denaro nel lungo periodo rispetto a uno stato «solido» come quello tedesco – ha fatto registrare una delle sue maggiori cadute in un giorno solo, passando da 120 a 115. Un anno fa, il valore dello «spread» era a 156.
Certo, non si può parlare di guarigione ma la febbre è indubbiamente scesa così come è leggermente scesa la velocità di accumulo del debito. Questo non è un motivo di esultanza ma, perlomeno, di modesta soddisfazione. Va ricordato che a metà ottobre l’Unione europea ha approvato il piano del ministro Giorgetti per un rientro dal deficit eccessivo mentre pochi mesi prima aveva avviato una procedura di infrazione contro l’Italia. Mentre un anno fa si poteva affermare che non esistesse una strategia per ridurre il debito, questa strategia oggi esiste e le forze politiche l’hanno trangugiata, anche se non proprio di buon umore.
Negli ultimi mesi, le cose non sono andate così in molti altri Paesi. Il nuovo governo francese deve ancora presentare la «finanziaria» e c’è il rischio di un voto di sfiducia oppure del rinvio di riforme comunque necessarie; in Germania, tutto è fermo in attesa delle elezioni del 23 febbraio (dopo le elezioni i tempi per la formazione di un governo sono tradizionalmente lunghi); nel Regno Unito la prospettiva di un sensibile aumento delle imposte sembra farsi più realistica. E negli Stati Uniti occorre ricordare che tra pochi mesi la spesa pubblica raggiungerà nuovamente un «tetto» e, in mancanza di un accordo parlamentare, le spese del governo federale dovranno essere fortemente tagliate e l’amministrazione centrale, come è già successo in passato, dovrà iniziare a ridurre le spese (spesso si comincia con la chiusura dei parchi nazionali e dei musei).
Occorre, naturalmente trasformare i buoni propositi in buone pratiche e questo, per il momento, certamente non è scontato. La spesa pubblica e il suo finanziamento rappresentano, in ogni caso, una delle dimensioni importanti – se non la principale – sulle quali si gioca il nostro futuro di società, a livello planetario, ossia la possibilità o meno di uscire da uno stallo mondiale sempre più pericoloso. Occorre quindi tenere gli occhi puntati sul funzionamento e le procedure delle amministrazioni pubbliche; in questo l’Italia ha sempre avuto una forte debolezza strutturale e nel complesso si può dire che l’introduzione di procedure elettroniche ha avuto la tendenza a non guarire, ma anzi talvolta a rendere più complicato, il lavoro degli uffici pubblici.
Dai grandi panorami dominati dal cumulo dei debiti si passa così alle piccole realtà fatte di lentezze ed esitazioni, un aspetto dell’economia e della società in cui l’Italia rimane sempre particolarmente vulnerabile. Va detto, però, che qua e là, i pachidermi dell’amministrazione pubblica stanno dando qualche segno di rinnovamento.
Sono segnali ancora troppo deboli sui quali, però dobbiamo riuscire a fare affidamento. Se tutto andrà bene, l’efficienza della spesa pubblica dovrà diventare uno dei punti centrali del dibattito non soltanto politico ma anche, più in generale, della società civile. L’ammontare complessivo del debito non deve quindi essere il motivo centrale delle nostre preoccupazioni, ma piuttosto come si arriva a questo debito. Ci sono spese pubbliche che facilitano la crescita e spese pubbliche che frenano il cambiamento, mantenendo a ogni costo condizioni, pratiche, strutture del passato, un debito pubblico che facilita lo sviluppo non solo economico ma anche sociale e un altro che frena la crescita. La scelta che dobbiamo fare – a livello non solo italiano ma europeo – è, naturalmente, ovvia.