ARTICLE AD BOX
ASHDOD (ISRAELE). Quella in cui il presidente americano Donald Trump fantastica la potenziale lussureggiante «riviera del Medio Oriente» s’intravede tra le nubi oltre i possenti cantieri navali di Ashdod, il grande porto israeliano a meno di mezz’ora di macchina dalla Striscia. Guarda da quella parte il padre francescano Ibrahim Faltas accogliendo il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani e la collega dell’Università, Anna Maria Bernini, che consegnano al Pam i container della missione tricolore “Food for Gaza”, 15 camion e oltre 100 tonnellate di aiuti. Laggiù, dove si allargano 360 chilometri quadrati di macerie tra cui un milione e 700 mila palestinesi cercano i resti dell’esistenza precedente al 7 ottobre, vivono i 14 piccoli malati in gran parte oncologici che, attorno al 15 febbraio, attraverseranno con le loro famiglie il valico di Rafah e dall’Egitto voleranno in Italia: Roma, Torino, Milano.
«Ho visionato tutte le cartelle cliniche, il più piccino ha appena un anno, se trattati adeguatamente tutti in qualche modo possono guarire, ma dobbiamo fare presto» racconta Franca Fagioli, professoressa ordinaria di pediatria a Torino. È parte del gruppo di medici universitari coinvolti nel progetto messo in piedi dalla ministra Bernini e dalla rettrice della Sapienza: «Una prima fase - dice Bernini - servirà per trasportare in Italia chi ha bisogno immediato di cure e una seconda per monitorare come portare a Gaza le protesi necessarie a centinaia di bambini mutilati senza violare il “dual use”, il bando sui materiali potenzialmente utilizzabili come armi» .
La Striscia è un cimitero di fantasmi. E non solo per i suoi quasi 50 mila morti. Medici senza frontiere stima che dei 36 ospedali esistenti prima della guerra ne funzioni oggi appena un terzo, tra cui l’Al-Aqsa e il Nasser di Khan Yunis, ad appena 60 chilometri da Ashdod. Per arrivarci si percorre la statale numero 4 fino a incrociare la 234, la “strada della morte”, dove all’indomani del pogrom di Hamas agonizzavano gli israeliani massacrati mentre tentavano la fuga. Oggi da questa parte Gaza è sigillata, l’unico valico aperto per i feriti è quello di Rafah, la rotta egiziana, da cui, mentre la prima fase della tregua pare reggere, entra anche il 50 per cento degli aiuti alimentari giornalieri. «L’Italia vuole fare la sua parte» spiega Tajani, elencando il contenuto dei container assieme al presidente della regione Piemonte, Alberto Cirio, che ha messo a disposizione 10 tonnellate di riso vercellese e 15 camion Iveco. L’interfaccia è il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, perché, continua il ministro, «non lavoriamo con Unrwa che riteniamo parte del problema anziché della soluzione e non consegniamo il cibo ad Hamas bensì direttamente ai palestinesi». Unrwa è l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi che Israele ha messo al bando in queste ore tanto a Gaza quanto in Cisgiordania, ritenendola complice di Hamas (una degli ostaggi appena liberati ha raccontato di essere stata prigioniera in una struttura Unrwa), ma negando al tempo stesso sostegno umanitario a migliaia di persone. La distribuzione degli aiuti non è solo questione di pacchi ricevuti, ma di distribuzione, e le strade per raggiungere il Nord, dove la gente sta tornando a piedi, sono smottate, impraticabili.
Mancano un paio di settimane alla fine della prima fase del cessate il fuoco, quella che prevederebbe, con l’interruzione delle ostilità, la liberazione di 33 degli ostaggi ancora a Gaza in cambio di mille prigionieri palestinesi e un graduale ritiro delle truppe israeliane. Venti di tempesta soffiano sulla tappa successiva, mentre la Cisgiordania brucia da Jenin a Tulkarem e la destra religiosa del governo Netanyahu spinge per la ripresa dei combattimenti strappando le speranze di chi a Tel Aviv aspetta da un anno e mezzo il ritorno dei propri cari. La fuga in avanti del presidente americano Donald Trump, che si è spinto a ipotizzare il ricollocamento dei palestinesi di Gaza in Egitto e Giordania, attizza le braci ardenti sotto la cenere. I partner regionali hanno alzato le barricate, a cominciare dall’Arabia Saudita, che garantirebbe il coronamento degli Accordi di Abramo solo a condizione della nascita di uno Stato palestinese. Ma anche la visita a Washington del presidente egiziano Al-Sisi e del re di Giordania Abdallah è un salto nel buio: Trump mercanteggia senza scrupoli e l’orizzonte è carico di nubi. «Non sono ottimista» ammette padre Ibrahim Faltas. L’equilibrio è fragilissimo. A Rafah, per ora, si passa. «La situazione è sotto controllo, il transito dei feriti, vagliati da Israele e dall’Autorità nazionale palestinese, procede senza tensioni» confermano i carabinieri italiani stanziati al valico assieme alla gendarmeria francese. Ce ne sono 38 in servizio in Palestina, una parte dei quali impiegati nella formazione della polizia locale. La missione “Food for Gaza”, il cui nome è previsto che cambi in “Italy for Gaza” per registrarne l’ampliamento, prevede che ne arrivino fino a duecento.
«Abbiamo bisogno di tutto» dice al telefono dalla Striscia Abu Hassan. Ha 39 anni, insegnava inglese all’università Al-Quds. La linea va e viene. I suoi tre bambini non sono malati, insciallah, «non verranno in Italia ma almeno stanno bene». Resteranno laggiù, per ora. «Dormono in tenda da mesi, da quando siamo sfollati a Rafah, sono bambini sani, ma non so come cresceranno né dove» continua. Non c’è rabbia nella voce, solo stanchezza, paura.